di Rina Brundu. Ci sono storie di cronaca che fanno meno rumore ma offendono l’anima. Come la storia di Marinella, una giovane donna morta lo scorso ottobre, che scopriamo, soltanto oggi, ammazzata di botte dal di lei marito. Ridotta in schiavitù, ridotta ad essere l’ombra della sua umanità, essenza alterata dall’alcol e dalle pasticche prese per…. dimenticare. Dimenticare di essere… stata viva.
Di norma, leggendo simili storie mi soffermo a pensare, a pensarle queste giovani donne. Mi chiedo chi erano, che sogni avevano, rumino sul perché e sul percome del loro destino. Oggi non ci sono riuscita. Forse perché in contemporanea sono arrivate altre storie dall’India: storie di bambine violentate, stuprate; storie di violentatori e di stupratori che invece di tacere e di vergognarsi mandano messaggi dal carcere: “Se fosse stata zitta sarebbe ancora viva!”. Storie di giornali che riprendono queste farneticazioni e le amplificano, storie di nazioni – l’India stessa in questo caso – che vietano la diffusione di programmi di denuncia del tremendo status-quo.
Proprio così, oggi non ci sono riuscita! Questa sera quando ho letto la storia di Marinella, ho smesso quasi subito di pensare a lei e mi è prepotentemente tornata alla mente una datata faccenda sarda che mi avevano raccontato tanto tempo fa. Era la storia di vita di una giovane vedova a cui avevano violentato e ucciso la figlioletta. Per tutta risposta la donna imparò a cavalcare, a usare il fucile, quello stesso che si portava dietro quando usciva in campagna e che, quando entravano in casa sua, gli ospiti potevano ammirare sempre appeso di traverso sulla grande cappa del camino, come una sorta di monito solenne e muto ad un tempo. Si sussurrava inoltre che colui che si sospettava essere stato l’assassino della bambina morì in circostanza misteriose, ma d’altro non ci fu mai dato di sapere.
Abborro la violenza in ogni sua forma, come un peso che mi sento incapace di sopportare, e sono sempre stata dalla parte di NESSUNO TOCCHI CAINO, ma mentirei se negassi che ho ammirato quella giovane vedova. Dirò di più, da vera sarda la considero un mito a suo modo. Non sono certo io a scoprire i dubbi etici e morali che pone la questione: is there a time to kill? Ovvero, c’é un tempo eticamente “valido” per uccidere? Mentirei se negassi che la mia risposta é: sì, c’é!
Dedicato a Marinella.
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