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Matteo Renzi, il Recordman: polverizza tutti i primati in termini di decreti-legge e di voti di fiducia (il Governo del de-cretino)

Creato il 04 novembre 2014 da Tafanus

Legge e libertà: Questo governo ha la decretite. Più di Letta, Monti, perfino più di Berlusconi. Renzi ha battuto tutti i record. Nella legislazione d'urgenza come nei voti di fiducia. Espropriando il Parlamento. E fornendo un pessimo esempio di regole violate (di Michele Ainis - l'Espresso)
Michele-ainisDice l'art. 70 della Costituzione: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». No, viene gestita in solitudine dal presidente del Consiglio, con la saltuaria collaborazione dei ministri. Sta di fatto che le leggi battezzate in Parlamento ormai si contano sulle dita d'una mano. In compenso trabocca il fiume dei decreti: 20 in otto mesi, per l'esecutivo Renzi I.
Certo, quest'andazzo dura da gran tempo. 22 decreti legge sotto il governo Letta, 25 con Monti, 30 durante il Berlusconi quater. Lo ha ricordato proprio Renzi, per difendersi dai rimbrotti della Boldrini, trasmessi a palazzo Chigi il 14 ottobre con lettera ufficiale. Tuttavia i suoi predecessori governarono più a lungo (Berlusconi per 3 anni e mezzo). Sicché la media mensile di Letta fa 2,2; quella di Monti 1,5; Berlusconi scende a 0,7. Invece Renzi sale a 2,5: tombola! E tombola sui decreti legislativi: 34. Infine supertombola rispetto ai voti di fiducia: 25. Anche in questo caso un record: la media dei voti di fiducia era d'una volta al mese con Letta, Prodi II, Berlusconi IV; con Monti s'è impennata a 3 fiducie al mese; la media di Renzi tocca 3,2.
Insomma, questo governo straccia ogni primato: sui decreti legge, sui decreti legislativi, sui voti di fiducia. Che sequestrano la libertà dei parlamentari, perché alla fiducia s'accompagna un doppio effetto: cadono tutti gli emendamenti, sostituiti da un maxiemendamento dettato dal governo; si vota a scrutinio palese, dunque non c'è spazio per i franchi tiratori. Viceversa s'apre uno spazio sconfinato per le materie trattate nei decreti. Dovrebbero essere omogenee, puntuali, circoscritte; ma ormai ogni decreto legge è un autobus, o per meglio dire un omnibus, dove s'accalcano troppi passeggeri. E dove s'introducono riforme di sistema, anziché misure straordinarie per fronteggiare un'emergenza, come pensavano quelle buonanime dei costituenti. Così, il decreto Madia (n. 90 del 2014) incide in profondità sulla pubblica amministrazione, sugli appalti, sul processo civile. Mentre lo Sblocca Italia (n. 133 del 2014) rimbalza dalle frane al web, dal dissesto idrogeologico alla digitalizzazione.

Risultato? Una museruola in bocca al Parlamento. Gli è concesso applaudire, non correggere: gli emendamenti accolti durante l'era Renzi non superano il 5 per cento. Per dirne una, la riforma costituzionale ha incassato 12 mila emendamenti; ne sono stati approvati meno di 50. Nel frattempo l'esecutivo ottiene deleghe in bianco, come quella sul Jobs Act: in luogo dei «principi e criteri direttivi» (prescritti dall'art. 76 della Costituzione), c'è scritto «abracadabra». Ma se è per questo, la nostra Carta (art. 77) impone che i decreti legge vengano immediatamente sottoposti al Quirinale, e da lì alle Camere. Invece il decreto Madia è rimasto in naftalina per 11 giorni, e per 15 giorni i due decreti licenziati a fine agosto. Mentre la legge di stabilità si è materializzata una settimana dopo l'approvazione del Consiglio dei ministri, oltretutto senza la bollinatura della Ragioneria generale.
Reazioni, moniti, proteste? Macché. Napolitano aveva alzato la voce a dicembre, quando ancora governava Enrico Letta; ma contro la decretite del governo Renzi ha preso parola unicamente la presidente della Camera. Poi, certo, Renzi va capito: in Italia, il decisionista è sempre un decretista. Però c'è un che di diseducativo quando la prassi divorzia dalla legalità formale. E c'è un motivo d'allarme, perché il disprezzo delle regole è la Bibbia delle dittature, non delle democrazie. Si dirà che contano i risultati, ben più degli strumenti. Lo diceva anche Deng Xiaoping, non proprio un campione democratico: «Non importa di che colore è il gatto, l'importante è che acciuffi il topo». Purché il topo non sia la Costituzione.
Michele Ainis

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