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Come dicevano tempo fa alla tv: all’improvviso uno sconosciuto, anzi due. Andando a vedere i crediti di Vlees (2010) si scopre che è un film diretto a 4 mani, e se si va più a fondo nella ricerca si può notare di come questi due registi collaborino insieme fin dal lontano 1990. Sono olandesi, si chiamano rispettivamente Victor Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth, ed entrambi prima di essere dei filmmakers sono degli artisti: lui fotografo (qui il suo sito) e lei pittrice/scultrice (qui invece il suo). Dando una rapida sbirciata alle loro produzioni si può intuire di come questo film, e qualcosa mi dice anche quelli precedenti, diverga dal comune vedere. Materiale succulento per questo spazio virtuale? Mmm…
Il problema ciclopico di Meat è che si tratta di un’opera incurante dello spettatore: è scombiccherato, disordinato, delirante. Priva chi guarda delle coordinate elementari.E allora sembra non esserci tempo perché i fatti accadono e poi riaccadono in un loop disorientante, tanto da chiedersi se molto di ciò che si è visto non sia un sogno, oppure un incubo. Inoltre sembra (è un eufemismo) che non vi sia coerenza narrativa, il macellaio e il poliziotto interpretati dallo stesso attore si annodano in una spirale illogica che si regge in piedi soltanto per la curiosità che la vicenda riesce all’incirca a sprigionare.Infine va registrato un quantitativo notevole di “messaggi” che però non convinco granché nel contenuto, si va dalla crisi coniugale che culmina con l’ottima scena del suicidio, alle abitudini pruriginose del macellaio, passando per altre strette sottostrade che, nuovamente, sembrano condurre soltanto a dei vicoli ciechi; si vedano le velate allusioni all’ambientalismo, la sequenza dello stupro, d’impatto ma poco utile ai fini della storia se non per delineare sommariamente la personalità della ragazza, o la presenza della donna al piano di sopra che resta la figura più enigmatica della pellicola.
Questo è quello che si percepisce. Probabilmente il titolo brachilogico ha significati più sotterranei, potremmo infatti pensare alle persone come carne, quindi roba già morta e per di più fatta a pezzi, ma questa è un’interpretazione del tutto soggettiva che i registi con la loro visione arty di certo non suggeriscono. Potrebbe essere che qualche sprovveduto tiri in ballo Lynch, quando ci sono in giro sdoppiamenti di identità lo si fa di routine, ma è chiaro che qui siamo lontani da un modello così alto. A tratti affascinante, sulla lunga distanza parecchio confuso.
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