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Nel titolo di quest'ultimo film firmato Von Trier, c'è già una sorta di preannunciazione, di quello che davanti ai nostri occhi si sarebbe manifestato come lo spettacolo cinematografico più inquietante e rassegnato sul concetto di "fine". Parlo di concetto e ci tengo a sottolinearlo, questo per far fronte alla stupidità che si finge stratega, dei nostri canali, i quali si divertono a presentare Melancholia come film di "Fantascienza".
Quant'è irrispettoso pensare a Melancholia, come a uno di quei pastrocchi calamitosi che di tanto in tanto le nostre tv propongono? Io credo lo sia fin troppo. E basti guardare Melancholia nei suoi primi 8 o 9', prologo annunciatore della fine di "tutto" (ouverture wagneriana del Tristano e Isotta), per comprendere, quale assurda idea sia abbia del cinema di Von Trier. Prima di vedere il film, più di un fidato amico cinefilo, mi avvertì della complicata visione, del fatto che "vedere Melancholia, non è certo una passeggiata"...
Justine (una Kirsten Dunst come non l'avevo mai vista prima) è la sposa di un matrimonio architettato a mo' di scaletta, secondo la fobica esigenza di perfezione sofferta dalla sorella maggiore, Claire (Charlotte Gainsbourg). Tutti cercano di sprigionare il clima di festa e la solita euforica felicità racchiusa in una sposa. Ma Justine, il cui nome rimanda a De Sade (e al film di Jesus Franco del 1968, Justine, ovvero le disavventure della virtù) non è la solita sposa. In lei abita un forte malessere personale, qualcosa che scientificamente oggi viene identificato con il nome di depressione, la patologia dell'umore. A Justine viene affidato esattamente questo, l'incarnazione di uno dei mali più terribili che affliggono l'uomo/la donna (qui in veste quasi di eroina, cosa davvero insolita per "un" Von Trier). Il film è suddiviso in due parti, ognuna delle quali dedicate alle protagoniste di Melancholia, Justine e Claire. Due sorelle, apparentemente così diverse, la sposa triste che promette di essere felice almeno il giorno delle sue nozze. La sposa che si assenta di tanto in tanto, appena può, per rimanere da sola con sé stessa, ad osservare il cielo. La sposa/bambina che cerca disperatamente riparo sotto l'ala di un padre e una madre così sballati, assenti. La sposa rassegnata anche al peggiore dei finali, perché in lei qualcosa non va, ma le persone come Justine si sa, non temono nulla. La "zietta-spezza acciao", che rimbocca le coperte al nipote e subito dopo confessa pensieri assurdi, per poi tornare di nuovo accanto al bambino e addormentarsi accanto. Dall'altra parte la sorella maggiore, la badante, la donna/mamma tutto fare, che sgrida, rimprovera, accudisce e percepisce anch'essa, come Justine, l'incombere di un imminente impatto. Qui però non c'è rassegnazione, c'è ansia, l'incontrollabile paura di Claire stravolge nella seconda parte del film tutto quello che è stato nella prima parte. L'ordine, la simmetria nei movimenti, le scalette e tutto il resto qui vengono mandate all'aria per cedere il posto alla balìa degli eventi e degli stati d'animo, ancor prima.
La scienza forse, e qui subentra il marito di Claire, John (Kiefer Sutherland), non ha i mezzi per prevedere catastrofi, per controllare davvero "tutto". Per capire realmente dove possa arrivare un uomo o una donna affetti da un male che ancora non conosce cura. E' chiaro che, quello strano, e un po' lontano dalla tecnologia, attrezzo prestato da John per controllare l'avvicinarsi o meno del pianeta celeste alla terra è un po' sinonimo della scienza stessa. Almeno io l'ho interpretato così. Nel senso che, uno scienziato può, approssimativamente dirmi se esiste o meno il rischio di un impatto. Così come uno psichiatra può dirmi se il mio malessere possa o no esser classificato secondo la più comune delle malattie dell'anima, dell'umore, nota come Depressione. Quando poi arriva il momento di gestire situazioni reali, quando ci si trova di fronte al male, a un passo dalla distruzione totale, nessuno è in grado di tirar fuori la soluzione. Pensiamo alla tragica (e vigliacca) decisione di John, dunque all'immagine che ne dà lo stesso Trier, al suo uscire di scena...
Di interpretazioni credo se ne possano dare infinite, anche se poi immagino si ritorni sempre e comunque all'idea di un film coraggioso, presuntuoso forse, perché se vuoi mettere in scena e tentare di raccontare per immagini qualcosa come la depressione, o sei un pazzo che campa di fortuna oppure un genio depresso, e Von Trier, che non rientra tra i miei registi prediletti, credo sfrutti la seconda.
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