Anna Lombroso per il Simplicissimus
A un mese dalla liturgia dei padroni, dalla cerimonia a conferma dell’indissolubile sodalizio delle due M a Melfi, con gli applausi teleguidati di qualche comparsa operaia, oggi l’annuncio, la rivelazione prevedibile: la Fiat ha richiesto per lo stabilimento di Melfi la cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione aziendale dal prossimo 11 febbraio al 31 dicembre 2014. Lo rende noto la Fiom-Cgil, che esprime “forte preoccupazione perché ad oggi ancora non si conoscono i dettagli degli investimenti per lo stabilimento”. La Cig interesserà tutti i dipendenti e una linea produttiva per volta, mentre l’altra continuerà a sfornare le “Punto”.
Non è certo una sorpresa, non potevate non saperlo, non poteva non immaginarlo il Pd, non potrà negarlo il presidente del consiglio schizzato che in campagna elettorale si disdice. Le premesse c’erano tutte: una fabbrica il cui manager osannato aveva promesso in regalo agli operai in cambio delle garanzie, e agli italiani in cambio dei diritti degli operai, un megalomane piano industriale da 20 miliardi di euro, una sòla rifilata a chi voleva solo essere persuaso che è così si che si entrava nella globalizzazione, che in fondo il risultato meritava di umiliare con i lavoratori, il lavoro stesso.
Si sapeva ma a nessuno del “ceto dirigente” credulone e invertebrato venne in mente di chiedersi da che cilindro avrebbe tratto quel 20 miliardi, né chi avrebbe contratto il vizio di comprare cattive auto che costano care in questa recessione della quale non si vede la fine, o in che sfera separata della modernità e della schiavitù senza confini, avrebbe dato credito competitivo a un’innovazione praticata affamando gli operai, punendo la ricerca come nemmeno nelle autoritarie geografie asiatiche si fa più.
Eppure hanno voluto crederci allo sfrontato venditore di cattive auto, nuove ma abusate, come abusato è stato il lavoro, i diritti, la dignità, come hanno voluto credere a Monti e ai suoi brutali pacchetti penitenziali: i Crescitalia, le liberalizzazioni, i Salvitalia, le semplificazioni, edifici con le fondamenta marce già ridotte in macerie, quelle dell’occupazione, della sanità, dell’istruzione, dell’università, del territorio, sulle quali si tira su l’arco di trionfo dell’irreparabile iniquità, del debito pubblico incolmabile anche grazie al fiscal compact, del pareggio di bilancio, delle regalie a banche imprudenti e impudenti, del saccheggio delle Casse Depositi e Prestiti, degli investimenti per mantenere gli sleali parassiti che vivono alle spalle di grandi opere irrealizzabili.
Insieme avevano aperto la campagna elettorale dei padroni, le due M, proprio a Melfi, dove l’impunito professore aveva ingiuriosamente impartito la sua rituale lezione di infamia, rivolgendosi a operai, cassintegrati, disoccupati, studenti, famiglie, reclamando il riconoscimento dei suoi meriti: rigore, lacrime, sangue, sofferenze, penitenza, sacrifici, miseria, cancellazione dei diritti, delle garanzie e delle speranze, troppo perfino per l’Fmi, troppo perfino per l’Euopa, ma non abbastanza per chi non voleva vedere, per chi è stato complice, per chi ha tradito un mandato.
E dove il manager, che ha a cuore solo il regalare agli azionisti una bella e lustra fabbrica americana e tanti dividendi, ha recitato il mantra tante volte ripetuto in questa truce offensiva aziendalista: fabbriche ingovernabili, operai riottosi e accidiosi che stanno a casa per guardarsi la partita, gente scriteriata che ha vissuto al di sopra delle possibilità.
Avevano dichiarato guerra, l’hanno mossa, li hanno puniti, mortificando con loro il lavoro, spegnendo con le loro le nostre speranze. L’ho scritto tante volte, abbiamo la colpa di aver lasciato soli gli operai, nel cappio di referendum-ricatto, nella leggenda della fine della classe lavoratrice e dell’eclissi della sua lotta nelle tenebre di una modernità che non ha bisogno di diritti. E ora più abbiamo il dovere di stare al loro fianco, dalla parte giusta.