È ancora una volta il cinema austriaco a mostrare con classe sopraffina la purulenza che attanaglia la nostra razza, il sepolcro imbiancato del vicino di casa, il cuore ammorbato dal male. Michael (2011) è senza vie di mezzo opera tanto nauseante quanto scomodissima che col suo taglio distaccato non si prepone di stigmatizzare: la cifra esterna che sostanzia la storia lascia allo spettatore gli oneri del giudizio; dunque, non un film su o contro la pedofilia, piuttosto un film dentro la malattia, nell’atto quotidiano di una (s)cena, nel gesto calcolato atrocemente minimizzato, nello sguardo implorante. I presupposti su una pellicola che si occupa di un tema così scabroso implicano una chiarezza dei ruoli che non ammette fraintendimenti: l’aguzzino e la vittima non possono avere ulteriori interpretazioni, nel gioco delle parti devono essere così e devono comportarsi così, uno subisce l’altro infligge, uno è un mostro l’altro è un angelo. Schleinzer, qui all’esordio, non tenta strade alternative, anzi nell’ordine espositivo nulla si ritaglia porzioni di sorpresa: Michael (il maniaco) possiede tutte quelle caratteristiche che lo rendono tale, e la doppia vita, lavorativa e personale, sembra essere la prerogativa fondamentale per tutti quegli esseri sub-umani che si macchiano di orrori simili; allo stesso modo Wolfgang (il bimbo) rappresenta prevedibilmente la quintessenza dell’innocenza, il protagonista di un olocausto indicibile che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, lo rivolterà nell’anima.
Date queste premesse, la presumibilità ex ante la visione viene annullata dalla visione stessa che ingrana fin dall’incipit grazie al principio ellittico che ammutolisce l’immagine di troppo. Come il prof. Haneke ha ampiamente insegnato in passato, e Schleinzer lo sa bene avendo collaborato con lui e praticamente con tutti gli altri grandi austriaci contemporanei, è nel fuori campo che si raggrumano meglio gli snodi narrativi (occhio non vede, cuore che duole), e di riflesso i significati, questo perché chi guarda è chiamato in prima persona a completare quel processo filmico che il regista volutamente non conclude. Sarà la scoperta dell’acqua calda, ma quando nel non-visto ci finisce la relazione pruriginosa tra un adulto e un bambino la sensibilità non può che aumentare, e le immagini le situazioni le implicazioni elaborate dal cervello sono inevitabilmente più agghiaccianti di qualunque plateale esibizione. Si profila dunque una visione partecipata in cui il cinema diventa cinema delle conseguenze, la causa non è situata nella diegesi ma in chi osserva e gli effetti sanno essere devastanti: la violenza confluisce in una sciacquata del pene, la devianza nell’impotenza, l’insospettabilità in una errata omelia del prete, la ribellione in un disegno raffigurante mamma e papà, la scomparsa di un gattino nella sua morte.
L’orchestrazione complessiva, raggelante e chirurgica, eleva il modus operandi del regista ad autore già molto navigato. La cura verso tutto ciò che compone il quadro traspare nella forza che possiede l’estetica: l’ordine dell’arredamento, la pittura candida, la stanzetta-prigione in cui “vive” Wolfgang sono validi elementi che si scontrano con il dramma assoluto del film, un dramma che nelle ultime battute diventa da batticuore pur mantenendo il suo intransigente rigore, e quando si assiste alla perlustrazione dell’abitazione da parte della madre, un coro potente prende vita dalle viscere e urla: “apri quella porta!”: è l’apice empatico che sigla il patto definitivo tra lo schermo e chi gli sta di fronte; ovviamente, però, il film rimane fedele alla sua politica, sicché, dopo, non viene mostrato nulla se non i titoli di coda, ma da quella fessura lasciata aperta divampa una sensazione di liberazione. Sia per il piccolo, che per lo spettatore. In concorso a Cannes ’11 e vincitore di alcuni premi non prestigiosissimi tra cui quello di chi sta scrivendo: Michael è uno dei migliori film dell’anno.
- Il coltello.