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Mio padre

Creato il 21 giugno 2012 da Casarrubea

Giuseppe Casarrubea

Mio padre
Non ho alcun ricordo di mio padre. Avevo 15 mesi quando lo uccisero. Tutto quello che so di lui l’ho saputo da mia madre, che ricordo vestita a nero per un tempo interminabile, come ricordo anche il ‘pagliaccetto’ nero a ginocchio, con le bretelline incrociate sulla schiena, che tenni per lungo tempo, dopo quel tragico 22 giugno 1947. Fino a quando un giorno, quella buona amica e vicina di casa di mia madre, Pina Suriano (erano dello stesso quartiere ‘Casa santa’), non le consigliò di togliermi  quel coso nero e di farmi indossare un vero abito bianco. Come uno dei grandi. Pina, ora beata grazie a Giovanni Paolo II, trovò pure il pretesto: farmi fare la prima comunione. Ma non avevo ancora compiuto i quattro anni e la cosa sarebbe stata difficile. Perciò donna Graziella, cioè mia madre, una donna tutta ‘casa e chiesa’, mi spedì a lezioni di catechismo che ricordo erano tenute proprio da Pina Suriano fino a quando questa giovane, nel 1950, cessò di vivere. Non ho mai saputo come e perché.

Ricordo, però, molti dei miei compagni di prima comunione con giglio e pantaloncini lunghi, ora dispersi per il mondo. L’unico in braghette corte ero io, data l’età. Ma sapevo tutto delle lezioni, anche se devo confessare, di molte cose non capivo il senso. Così avvenne che passai dal nero al bianco, gradualmente.

Di mio padre mi sono rimaste nella memoria pochissime cose che mi raccontava mia madre. I suggerimenti che gli dava di non recarsi al partito/sindacato, mentre lui cocciuto ci andava persino la domenica a discutere con gli altri suoi compagni comunisti. La pazienza che aveva nell’attendere, all’angolo della strada dove abitavamo, in via La Perna, le mandrie di vacche al ritorno, dopo che i vaccari avevano fatto il giro di andata mungendo il latte davanti alle porte,  ‘casa per casa’. Anch’io conservo il sapore di questo ritorno, perché negli anni immediatamente successivi ho potuto sperimentare che il latte delle vacche, dopo che sono state munte, è più denso e gustoso di quello delle vacche ancora turgide.

Quella sera mi aveva messo in braccio, mio padre. E felice di vedermi paffuto e colorito, mi stava portando con sé alla sezione, che aveva una sede in Corso dei Mille, con una stanza, una scrivania e qualche sedia. Con l’insegna del partito appesa all’esterno. Mia madre lo chiamò e gli disse: ‘Lassalu a mmia u picciriddu cu sa si metti a chianciri’ (‘Lascialo a me il bambino perché si potrebbe mettere a piangere’). Così mi consegnò nelle braccia di mia madre e se ne andò. Furono gli ultimi passi della sua vita. Quelli che separarono l’angolo della via La Perna all’incrocio con il corso dei Mille, dalla sezione del Pci/Cgil.

Alla sezione/sindacato incontrò i suoi compagni: Leonardo Addamo, Giuseppe Salvia, Salvatore Mancuso, Salvatore Patti che nel sindacato aveva la funzione di ‘scrivano’, Vincenzo Lo Iacono. Mancava il segretario della sezione: lo studente in legge Raffaele La Franca che qualche mese prima aveva consegnato a mio padre la tessera di iscrizione al Pci per l’anno 1947.  Erra un dovere politico e civico allora prendere la tessera.

Se ne stavano seduti davanti alla porta d’ingresso a discutere del più e del meno. Anche mio padre si prese una sedia, appoggiò lo schienale al muro e si sedette, intervenendo nella discussione e ascoltando in lontananza la banda musicale che suonava al Teatrino di Piazza Garibaldi. L’illuminazione pubblica era assai debole e, in lontananza, non si distinguevano bene i volti delle persone. C’era poco da ritenere, quindi, che questi compagni se ne stessero lì per godersi il ‘passeggio’. Ben altri erano gli argomenti della loro riunione domenicale.

Il primo maggio c’era stata la strage di Portella della Ginestra e, una settimana dopo, ignoti avevano ammazzato a colpi di lupara il sindacalista, anche lui di Partinico, Michelangelo Salvia che, secondo certi benpensanti, aveva il vizio di parlare troppo. Le carte non ci dicono l’argomento della discussione, ma ci dicono, in compenso, che un ‘camioncino rosso’ proveniente da Porta Alcamo, scendeva lentamente attraverso il corso dei Mille e, girando da una traversa a sinistra, era andato a sbucare all’incrocio tra la via Pozzo del Grillo e il cassaro, esattamente di fronte alla sezione  del Pci/Cgil.

Da qui, cioè da una distanza di circa dodici metri, quel gruppo di lavoratori fu aggredito con il lancio di bombe a mano, bottiglie incendiarie e colpi di mitra. Azione rapidissima e mortale. Tragico il bilancio: due morti e diversi feriti, anche tra i passanti. Mio padre fu colpito tra i primi probabilmente perché aveva visto in faccia alcuni degli aggressori. Morì subito. Il tempo di tentare un vano rifugio all’interno della sezione.  Vincenzo Lo Iacono, morì una settimana dopo. Tutti i presenti rimasero feriti. Addamo perse l’uso della gamba e dovette supplire con un’apposita scarpa, che mi ricordo da quando ero ragazzo, aveva una suola di parecchi centimetri più alta. Il Salvia, colpito a una mano perse l’uso di due dita. Fu poi minacciato dalla mafia e dovette emigrare al Nord, credo a Livorno. Patti fu colpito al braccio, alla coscia e al petto. Mancuso se la cavò con ferite più leggere, trovando uno scampo presso i vicini. Fu una trappola, un tiro al bersaglio. L’esplosione delle bombe provocò il panico anche tra la folla presente a piazza Garibaldi, che cominciò a fuggire per le vie più disparate. I musicanti si buttarono giù dal palchetto musicale. Nella calca ci furono altri feriti.

Appresa la notizia mia madre mi depose nella culla e con mia nonna corse a vedere cosa era successo. Ma non la fecero avvicinare. Era già arrivata la polizia. Qualcuno riuscì a ricondurla a casa. E ci ritornò lasciando il corpo di mio padre lì, circondato da sbirri e mafiosi.

Mio padre. Poteva starsene a casa. Mia madre glielo diceva sempre perché ‘veniva dall’acqua calda’ di Portella della Ginestra e dall’assassinio di Salvia che aveva parlato troppo. Temeva. Il cuore le parlava. L’aria di guerra contro i comunisti si respirava in ogni fatto, in ogni parola, in ogni angolo di strada. Ma mio padre non era il tipo buono per tutti i giorni. La vita, come vedremo, gli aveva insegnato che bisogna resistere, combattere, sperimentare sulla propria pelle, capire. Morì a quarantotto anni in quel modo, sapendo come gli altri sui compagni che rischiava. Forse tutto quello che doveva capire e fare lo aveva ben capito e fatto.

Di lui conservo solo pochi cimeli: una tessera del Pci, un foglio matricolare, dei fogli di congedo militare illimitato, alcuni mobili fatti con le sue mani, un martello, un’ascia. Perché mio padre era un maestro d’ascia, un falegname tra i più bravi che ci fossero a Partinico. A lui era stato affidato il compito di costruire il vecchio portone di legno del Municipio, poi sostituito con un orrendo portone di alluminio e vetro.

Nasce il 1° ottobre 1899 da Giuseppe e Giovanna Cusumano e allo scoppio della prima guerra mondiale si mette in testa di salvare l’Italia dallo strapotere dell’Impero austro-ungarico. Matricola 23486 (33) del distretto militare di Palermo, diventa soldato di leva di prima categoria, venendo chiamato e giungendo alle Armi l’8 novembre 1917, addetto al Deposito dell’85° Reggimento di Fanteria. Il foglio di congedo illimitato, rilasciatogli a Catania il 23 giugno 1942 ci dà questi suoi contrassegni personali: capelli castani, colorito bruno, occhi castani, naso greco, dentatura sana, mento regolare, altezza m.1,70. Appena diciottenne, dunque, lo Stato l’ acchiappa per spedirlo al fronte di guerra. In quattro e quattro otto. Diventa uno dei famosi “Ragazzi del ‘99” che si distinguono in prima linea durante la Grande Guerra. Sui campi di battaglia dove lo mandano c’è, tra i tanti soldati, Ernest Hemingway, diciottenne pure lui, arruolatosi volontariamente come autista di autoambulanze con la Croce Rossa degli Stati Uniti.

Il 24 marzo 1918 è nel 5° Reggimento degli Alpini, Decimo Battaglione. Lo stesso giorno giunge in territorio dichiarato in stato di guerra. Da qui riparte solo il 4 novembre 1918, dopo l’armistizio di Villa Giusti (Padova) firmato, il giorno prima, dall’imperatore austro-ungarico con l’Esercito italiano.

Posso dire, dunque, con orgoglio, che mio padre fu uno dei tanti ragazzi  che assieme a diversi giovani e soldati molto più grandi di lui, riuscirono a inchiodare sulla linea del Piave l’offensiva che gli eserciti dell’Impero avevano lanciato in quella che Gabriele D’Annunzio poi definì come la battaglia del solstizio, iniziata proprio a metà giugno.

Gorizia, col suo monumeno di Re di Puglia ai centomila morti, indicati uno per uno su lapidi di bronzo che ne riportano i nomi, rende sempre vivo il senso profondo di una Patria costruita col sangue di milioni di caduti nella prima guerra mondiale. Quei nomi, illuminati ogni giorno dai raggi del sole al tramonto, sono un monito, un segnale per chi sa coglierlo nel silenzio significativo del luogo. Non importa da chi e quando questo imponente sacrario fu costruito. Conta commemorare i caduti e quanti hanno combattuto per consentirci di sperare nel futuro che vogliamo.

Finita la guerra mio padre decide di continuare la sua guerra. Non  torna a casa. Il 15 maggio 1919 è nella Quinta Artiglieria pesante, soldato di leva di prima categoria nella 5^ Munizioni. Durante le esercitazioni militari si infortuna ed è ricoverato nell’ospedale militare principale di Udine per esiti di traumatismo al ginocchio destro (23 luglio 1920). Un mese dopo, guarito, è mandato in convalescenza, finché il 7 marzo del 1921 è inviato in congedo illimitato, partendo da Gorizia per Palermo lo stesso giorno.  Sul Foglio del Congedo illimitato rilasciatogli il 16 marzo dal distretto militare di Palermo per smobilitazione, leggiamo che il soldato Casarrubea “durante il tempo trascorso sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito la Patria con fedeltà ed onore”. E’ autorizzato a fregiarsi della medaglia appositamente istituita.

Rientra nel corpo il 27 agosto 1927 e il 30 ottobre 1936 è arruolato come volontario per l’Africa Orientale Italiana, con ferma indeterminata, ai sensi di una circolare del Ministero della Guerra. Quindi lo troviamo nel deposito del 1° Reggimento Genio di Santa Maria Capua Vetere. Il 4 luglio 1937 è in Etiopia e da qui scrive una breve lettera a mia madre. E’ per me un documento prezioso e illuminante. La località da cui scrive è Gondar. Dice che si trova da circa un mese in ospedale con febbre dovuta a malaria perniciosa e che a causa della forte febbre è stato tre giorni completamente cieco. Aggiunge di essere un po’ migliorato, ed invita mia madre ad avere pazienza.

Cosa era successo? E’ veramente la malaria quella che colpisce mio padre, oppure l’effetto dell’iprite e di altre armi chimiche usate dall’Italia fascista contro le popolazioni inermi dei villaggi, già dall’invasione dell’Etiopia nel 1935? Molti indizi mi fanno pensare a questa seconda ipotesi. Tant’è che non poche popolazioni etiopi continuano ad avere disturbi e malformazioni visive, soprattutto nelle aree che furono più esposte ai bombardamenti dei piloti italiani. Questa esperienza traumatica determina in mio padre un ripensamento profondo del potere brutale della conquista di altri popoli liberi, e un inizio di svolta politica.

Rimane nelle Armi fino al 9 gennaio 1938, quando è rinviato in congedo illimitato.

Con la dichiarazione di guerra da parte di Mussolini del 10 giugno 1940, è richiamato alle armi. Giunge in caserma il 14. Sarà rinviato in congedo illimitato il 23 giugno 1942. Il 4 novembre 1941 è autorizzato a fregiarsi del distintivo della guerra in corso quale fante del 244° Battaglione, 4^ Compagnia. Quindi, sulla base di un decreto del 1937, nella qualità di appartenente al 320° Battaglione Arditi, è decorato con la croce di bronzo al merito di guerra. Dopo il 1938, dunque, continua a fare il soldato, ma quando, verso la fine della seconda guerra mondiale, il fascismo crolla in Sicilia, nel luglio 1943, è uno dei pochi a cominciare un lavoro di costruzione politica alternativa capace di dare senso e dignità al mondo degli sfruttati, ai lavoratori, a quelli che il potere lo avevano sempre subito. E nel 1944-‘45 fonda con quei compagni che quella tragica sera erano con lui, il partito/sindacato. In questo incoraggiati da Pompeo Colajanni, il comandante partigiano che con il nome di “Barbato” aveva combattuto la sua guerra contro il nazifascismo.


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