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Giochiamo a perdere la mia identità, assoggettandola a quella di un altro. E quindi fingiamo che io non sia più io, ma un bambino di undici anni. Uno di quei bambini come non ne fanno più, che gioca a fare il pirata, il cavaliere di ventura, alleato ad uno squadrone di soldati barbari, impersonati dai cani dello zio e dai gatti della nonna. Uno di quei bambini che va a dormire con una scopa legata alla coscia, perché una balena gli ha tranciato la gamba all'altezza del ginocchio. Quindi fingiamo che io sia uno di quei bambini che si nutre di storie avventurose e Nesquik, che il capitano Nemo sia il mio migliore amico e che il povero Robinson Crusoe un naufrago da salvare dalle intemperie di una mostruosa isola inabitata. E' attraverso questa eroica infanzia che il nostro undicenne consuma una passione selvaggia per un libro vecchio secoli, nascosto tra Stevenson e Defoe, abbandonando le sue scorrerie giornaliere per gesta notturne, riscaldate da una torcia e antiche pagine polverose. E' così che il bambino, dapprima vivace bipede, violentato dalle sue fantasie, si trasforma in un coscenzioso baleniere. "Chiamami Ismaele" ordinò alla madre. Ma le stranezze si moltiplicarono quando ordinò al padre di appendere alla cima del letto una monetina da 50 centesimi che noi, assieme a lui, fingeremo essere un preziosissimo doblone d'oro. "Fissalo bene, babbo, e se dovessi vedere per primo la balena, quel doblone sarà tuo!". Ma le migliori ore spese per i suoi giochi, erano quelle sui banchi di scuola, banchi stretti e costipati, dove il giovane bambino muoveva in coordinazione braccia e gambe, fingendo di remare verso lidi sconosciuti ed esotici. I guai furono seri quando la maestra lo scoprì intagliare sul legno del banco una scritta sconosciuta: PEQUOD. "Faccio parte del coraggioso equipaggio di questa leggendaria imbarcazione".
Le pagine scorrevano obese di dettagli, tanto da permettere al bambino di riprodurre fedelmente la testa rugosa di Moby Dick, incollando alle pareti della camera da letto le immagini del mostro contro cui urlava per scuotere il buon vecchio Achab. In ginocchio, ai piedi del letto, indicava con il braccino sottile gli spruzzi costanti del grande animale che avvistava da lontano. Gridava ai suoi muti compagni di stoffa di avvisare i ramponieri, di gettare le barche in mare e di farsi carico delle lance. Si interrompeva solo per leggere il seguito. Era una bella recita, viva, rispettosa, anche migliore di quella volta con i moschettieri. Poi il libro finì e al bambino servirono diversi minuti per capacitarsene. Quindi decise di fare di testa sua, di sconfessare il nichilismo di Melville, adottando un assolutismo da undicenne, imponendo nuove regole e una ricerca infinita, che diventa più di una missione perché si trasforma in un destino.
Moby Dick è molto più di un gioco, molto più di un libro, è la biblica lotta tra l'uomo e Dio, tra x e X, per questo conviene leggerlo con lo spirito di uno di quei bambini come non se ne fanno più.
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