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Modell Deutschland: le riforme che i tedeschi hanno già fatto

Creato il 28 marzo 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide D’Urso 

Modell Deutschland: le riforme che i tedeschi hanno già fattoNel momento peggiore della crisi finanziaria dell’Eurozona molti si sono chiesti chi o che cosa avesse dato al governo tedesco il diritto di intervenire nelle politiche nazionali degli altri Stati dell’Unione Europea (UE). Il fatto che la Germania si sia appropriata di un potere di indirizzo che spetterebbe alle istituzioni comunitarie – prima su tutte la Commissione europea – è indicativo della debolezza di queste ultime e dello scivolamento dell’assetto istituzionale dell’UE in una direzione intergovernativa, dove i rapporti di forza tra Stati sembrano contare più delle regole e dei principi che stanno alla base della costruzione europea.Occorre rimarcare tuttavia che il governo tedesco ha potuto assumere questo ruolo inedito non tanto in ragione della sua forza economica, quanto del percorso che il Paese ha compiuto nel recente passato per uscire da una difficile situazione di stagnazione economica. La Germania ha già vissuto difficoltà assimilabili a quelle che oggi vivono gli Stati dell’Europa meridionale e ha saputo porvi rimedio attraverso un percorso di riforme dolorose quanto quelle che, in questi mesi, i governi di Italia, Spagna e Grecia hanno intrapreso sotto la pressione dei mercati finanziari. La Germania può offrirsi – e tra uno strepitio a fini elettorali interni e l’altro, l’ha fatto – come un modello, un esperimento già riuscito di rilancio di un sistema economico ingessato e indebitato. La nuovaeconomia sociale di mercato riformata può essere la spina dorsale di un nuovo modello socio-economico europeo? Per capirlo occorre farsi un’idea di cosa è successo in Germania nel periodo compreso tra la riunificazione e l’arrivo al governo di Angela Merkel.

La crisi dell’economia sociale di mercato

L’economia sociale di mercato, costruita nel secondo dopoguerra incontinuità con la tradizione storica della Germania unita, era incentrata su tre pilastri: uno stretto rapporto tra banche e grande industria; relazioni industriali caratterizzate da codeterminazione[1]e contrattazione collettiva; ruolo attivo dello Stato, in quanto fornitore diservizi di welfare state e mediatoredi interessi[2].Il sistema di economia politica nazionale è rimasto inalterato per oltretrent’anni. Negli anni Novanta, tuttavia, l’economia tedesca è entratapesantemente in crisi, mostrando tassi di crescita quasi nulli, crollati dal4,6% del 1990 al 2% medio del decennio successivo, fino alla media dastagnazione dello 0,75% dei primi cinque anni del ventunesimo secolo[3].I principali fattori di crisi sono stati l’accelerazione e l’estensionedei processi di globalizzazione, la riunificazione con la Germania Orientale e la creazione dell’Unione Economica e Monetaria (UEM)[4]. Dagli anni ’80, le nuove ICT e un rinnovato dinamismo commerciale e finanziario internazionale hanno compromesso la competitività dell’economia tedesca, troppo legata all’industria tradizionale e alle sue interrelazioni con il sistema bancario. In secondo luogo, la riunificazione ha comportato ingenti costi economici: secondo la Commissione europea un terzo del gap tra la crescita tedesca e la media europea degli anni Novanta era dovuto ai costi fiscali dell’unificazione; sussidi e trasferimenti verso l’Est ammontavano in media al 3-4% del PIL. A questo va aggiunta la politica monetaria restrittiva operata dalla Bundesbank in risposta alla scelta politica di fissare il tasso di cambio tra marco occidentale e orientale a 1:1, una stretta aggravata da una politica fiscale restrittiva di severa moderazione salariale.   L’alto tasso di disoccupazione, che nei primi anni Duemila si aggiravaintorno al 10%, moltiplicò i costi del welfare state. Dal 2002 al 2005 la Germania ha violato per quattro volte consecutive il Patto di stabilità, ma le procedure d’infrazione iniziate dalla Commissione europea sono state fatte cadere in ragione della forza politica di Berlino. Il terzo fattore di crisi era legato al varo dell’UEM; per quanto questa abbia nel tempo favorito l’economia tedesca, in un primo momento ha avuto su di essa effetti negativi con una politica monetaria eccessivamente restrittiva per la Germania.La crisi aveva messo in luce le debolezze strutturali che caratterizzavano il sistema tedesco: un settore finanziario dominato dalle grandi banche, legate all’industria oligopolistica tradizionale e incapace di finanziare innovazione e nuova imprenditoria; scarso sviluppo del mercato azionario che rendeva difficile perle imprese trovare forme di finanziamento alternativo ai prestiti bancari; un sistema di governance delle imprese rigido che ostacolava le ristrutturazioni strategiche; un modello di relazioni industriali fondato su accordi collettivi settoriali che, uniti all’alta tassazione sui redditi, aumentavano il costo per unità di lavoro riducendo sensibilmente così la competitività internazionale dell’economia tedesca.

Le riforme condivise: settore finanziario e governance d’impresa

A partire dalla metà degli anni ‘80, le grandi banche iniziarono ad esercitare pressioni sul potere politico per intraprendere un percorso di apertura del mercato finanziario, fino a quel momento largamente sottosviluppato. Una parte considerevole delle imprese era sostenitrice delle riforme, volendo svincolarsi dal controllo delle banche aprendosi al mercato internazionale dei capitali. Creata una solida base di consenso, fu possibile approvare nel corso degli anni Novanta misure per promuovere la crescita del mercato finanziario. Tra esse la più controversa fu la legge sul controllo e la trasparenza delle imprese (KonTraG) del1998, mirata ad accrescere la trasparenza delle compagnie, la responsabilità del management e la protezione degli interessi dei piccoli azionisti, andando così a ledere interessi consolidati nell’establishment bancario.Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, il partito socialdemocratico (SPD) fu l’autore più aggressivo e costante delle riforme pro-mercato. Dopo la vittoria elettorale del 1998, esso trovò nella liberalizzazione dei mercati e nelle riforme strutturali il modo per rilanciare l’economia e realizzare un proprio obiettivo storico: ridurre le concentrazioni di potere economico. L’attivismo del primo governo di Gerard Schröder portò in pochi anni alla realizzazione di significativi risultati, come la legge sulle scalate del 2001, con cui venivano regolati e facilitati gli acquisti di azioni da parte di investitori esteri e si riconoscevano nuove garanzie agli azionisti di minoranza. Il nuovo dinamismo azionario portò al divorzio tra gli interessi delle banche e delle imprese, con le prime meno legate alla dimensione territoriale e proiettate nei mercati finanziari globali e le seconde interessate a ricercare nuoviinvestitori.Le riforme degli anni Novanta proiettarono la Germania nel mercatofinanziario globale e rappresentarono un tentativo di passaggio da un capitalismo degli stakeholder, ad un modello dicapitalismo degli shareholder più simile a quello anglosassone[5].Somiglianza non significa però assimilazione: il modello di capitalismo sociale e corporativo non fu archiviato, ma adattato ai tempi e alle esigenze di flessibilità di un mercato internazionale sempre più concorrenziale.

La lotta per la flessibilità: contrattazione decentrata e mercato del lavoro

La seconda fase delle riforme ha interessato il sistema di relazioni industriali e il mercato del lavoro. La considerevole forza contrattuale del lavoro nell’economia tedesca è stata accettata lungamente dalle imprese come un dato di fatto, con i sindacati che avevano dimostrato di saper rappresentare gli interessi dei propri iscritti pur prestando attenzione alle esigenze di efficienza delle aziende. Con la crescita della pressione competitiva, la percezione delle imprese tedesche è cambiata radicalmente. I perduranti tassi di disoccupazione furono ricondotti alla rigidità del mercato del lavoro e agli alti livelli salariali. La contrattazione collettiva, fino a quel momento posta a fondamento del sistema, venne messa in discussione e si fece forte la richiesta da parte delle imprese di una decentralizzazione degli accordi.Clausole di avversità e apertura, che consentivano alle imprese in difficoltà di derogare rispetto agli accordi collettivi, in concreto pagando salari più bassi, vennero consentite nella Germania orientale e in breve si diffusero a tutto il sistema industriale. Nel 1993 circa mezzo milione di lavoratori aveva clausole simili nel proprio contratto, nel 1994 erano già quattro milioni, nel 1999 interessavano un quinto di tutti i lavoratori della Germania[6]. Altre deroghe  agli accordi collettivi furono consentite attraverso i Betriebliche Bündnisse (accordi a livello di impresa), che venivano negoziati tramanagement econsigli del lavoro[7].Il successo degli accordi a livello di impresa fu notevolissimo, arrivando ainteressare nel 2000 il 46% delle imprese, soprattutto quelle del settore meccanico, a fronte dell’1% del 1990[8].Il sistema di contrattazione ne è risultato più decentralizzato e flessibile. Gli istituti della codeterminazione non sono stati seriamente modificati a livello legislativo, ma la nuova centralità dei consigli del lavoro ha spostato il centro focale della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa dal consiglio di sorveglianza all’interno dei singoli stabilimenti.Le misure di riforma più complessive del mercato del lavoro, del sistema di tassazione e del welfare state furono messe in campo dal secondo governo Schröder. Fu la Commissione Hartz, formata da Schröder prima delle elezioni politiche del 2002, a presentare un progetto radicale di riforma delmercato del lavoro, poi approvato in diverse fasi. Le prime misure della “Riforma Hartz” furono varate nel corso del 2003. Con esse il governo decentralizzò e snellì il collocamento; creò agenzie per il lavoro interinale; istituì nuovi posti di lavoro con sgravi fiscali (Mini-jobs); cercò di favorire il lavoro autonomo tra i disoccupati; semplificò e alleggerì le regolazioni del lavoro temporaneo e del part-time.L’ultima fase della riforma del mercato del lavoro fu inserita nel programma “Agenda 2010”, che doveva integrare e completare la riforma modificando tassazione, sanità, welfare state e sistema pensionistico con lo scopo di ridurre i costi del lavoro e la pressione fiscale esplicita e implicita sui produttori, nonché di velocizzare il riassorbimento della disoccupazione.La quarta parte della riforma del lavoro (“Hartz IV”) fu la più controversa e divenne oggetto di dure battaglie sindacali che minarono la popolarità del governo. Approvata nell’estate del 2004 ed entrata in vigore dell’anno successivo, prevedeva una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, specie dei sussidi di disoccupazione. In particolare, fu ridotta la durata massima di erogazione e venne prevista una riduzione graduale dell’entità mensile del sostegno, legando l’erogazione dell’aiuto alla sottoscrizione da parte del disoccupato di un contratto vincolante nel quale erano elencati gli obblighi dell’individuo – primo fra tutti quello di accettare qualunque lavoro legale gli venisse offerto – e dello Stato nei suoi confronti.Gerard Schröder concluse la sua esperienza di governo con le elezioni anticipate del 2005, che riportarono al governo la CDU nella Große Koalition guidata da Angela Merkel. Nonostante il giudizio dei sindacati e dei partiti a sinistra della SPD, le prestazioni dell’economia tedesca hanno dato ragione ai governi che dalla metà degli anni Novanta hanno messo mano in modo incisivo alle rigidità di un sistema economico caratterizzato da perduranti incrostazioni corporative. La liberalizzazione dell’economia sociale di mercato ha aperto la Germania ai mercati finanziari globali, permesso la ristrutturazione delle imprese, impendendo così la deindustrializzazione del Paese – che all’inizio degli anni Duemila era una possibilità concreta – e preservando un know-how industriale e tecnologico che è alla base delle prestazioni economiche di cui oggi siamo testimoni.L’esempio della Germania è sempre più spesso richiamato da partiti e governi di numerosi Paesi europei. L’implementazione di riforme cosiddette “tedesche” (ma che sarebbe meglio definire liberali) è funzionale ad aprire i mercati, ivi compreso il mercato del lavoro, permettendo alle imprese miglioridi sopravvivere e crescere in un ambiente il più possibile flessibile ed efficiente. I sacrifici richiesti ad Italiani, Spagnoli e Greci, sono gli stessi che i cittadini tedeschi hanno sopportato nell’ultimo ventennio. La lungimiranza della classe politica tedesca ha fatto sì che il Paese intraprendesse il sentiero verso la competitività internazionale prima dell’esplosione della crisi economica e finanziaria globale. Questo non significa che la Germania abbia il diritto di imporre agli altri le proprie ricette, ma senz’altro le permette di porsi nell’UE come un autorevole modello di successo. Quando il governo tedesco, pur con tutti gli errori commessi nella gestione della crisi debitoria greca, vincola i propri aiuti finanziari all’implementazione di certe misure economiche, non sta imponendo un proprio progetto politico di egemonia, ma sta chiedendo agli altri di fare quelle riforme che i tedeschi hanno già fatto.* Davide D’Urso è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)
[1] Mitbestimmung: regolata da atti legislativi dei primi anniCinquanta, prevedeva la partecipazione istituzionalizzata dei lavoratori allagovernance delle imprese, in particolare di quelle più grandi (>2000dipendenti) con rappresentanza paritetica della forza lavoro nei consigli di sorveglianza, gli organi digoverno delle imprese.[2] In Witt, U., “Germany’s socialmarket economy – Between Social Ethos and Rent Seeking”, The IndependentReview, vol.VI, n.3, 2002.[3]Tutti i dati statistici riportati sono tratti da Eurostat,http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/statistics/themes[4] Allen, C., “Ideas, Institutions and Organized Capitalism: The German Model ofPolitical Economy 20 Years after Unification”, German Politics and Society,2010.[5] La distinzione tra c.degli stakeholder (portatori diinteressi) e c. degli shareholder(azionisti) è ben presentata in Gilpin, R., “Economia politica globale”, Università Bocconi Editore, 2003, pp.153-180.  [6]Tale diffusione è presentata e spiegata in Deeg, R., ibid., p. 340[7] In tedesco Betriebsräte, i consigli del lavoro sonoorganismi composti dai rappresentanti dei lavoratori all’interno deglistabilimenti. Con la riforma, i consigli del lavoro hanno assunto un ruolomolto importante, diventando l’organo di rappresentanza dei lavoratoriincaricato di contrattare con il management livello salariale, obiettivi diproduzione, distribuzione e orari di lavoro.[8]Ancora in Deeg, R., ibid

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