Venerdì sera parlavo con voi-sapete-chi e un suo amico, ex collega. Mentre rimembravano i tempi in cui lavoravano insieme, dopo un amarcord di aneddoti vari, li ho sentiti bearsi e complimentarsi a vicenda del fatto che entrambi si attirassero numerose antipatie. Alla mia provocazione “Probabilmente e semplicemente, ve la menavate da morire“, hanno argomentato che in un ambiente competitivo, una schiera di nemici è diretta conseguenza di una professionalità rigorosa, di puntiglio, di pretese elevate, di risultati apprezzati e premiati, e probabilmente anche di invidia. Ovviamente si riferivano a colleghi, persone che ricoprivano un ruolo simile al loro, e rispetto ai quali erano in qualche modo concorrenti. Per un premio, un cliente, una fetta di budget.
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Tanto per cambiare, non ero d’accordo. Quelle rarissime volte in cui sviluppo un’antipatia, non si tratta mai di constatazione amichevole. I miei odi sono sempre molto cinematografici e infantili: conio nickname denigratori, faccio le boccacce quando passa il malcapitato, mi produco in colorite imitazioni e sono a mia volta piacevole come il nano di Twin Peaks. Ribaltando il discorso, l’idea di lavorare in un luogo in cui la maggior parte delle persone mi augura la dissenteria, mi fa salire l’ansia. Posto che quello di non essere accettata, al pari della dissenteria, è uno stigma da scuola elementare del quale dovrò parlare con la psicologa, credo comunque che si possa essere bravi, professionali, rigorosi, e anche simpatici.
Diverso è il caso in cui siano i diretti collaboratori a detestare il capo. E’ pur vero che chi ricopre un ruolo di responsabilità è più esposto al rischio antipatia: prendendo decisioni, si scontenta sempre qualcuno. Esprimendo giudizi sull’operato di un collaboratore, o rimproverandolo, si rischia sempre di indispettirlo, farlo sentire sminuito, o minacciato. Uno potrebbe anche disinteressarsene e accettare che nel proprio team ci sia un insoddisfatto cronico. Perché in fin dei conti siamo qui per lavorare, non per far contenta la gente.
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Ma un buon capo non può pensare che il proprio sia solo un lavoro. Perché il lavoro è un terzo di giornata, di cui un’altro terzo viene sprecata passata a letto e un altro terzo è dedicato alla vita privata. Se i suoi collaboratori dormono male, oppure hanno il marito assente, il cane epilettico e la figlia zoccola, il capo purtroppo non può fare molto. Ma se sono infelici nelle 8 ore che passano in ufficio, è probabile che colui che li gestisce e coordina possa fare molto per cambiare le cose. Se si ha la fortuna di interagire ogni giorno con un gruppo medio piccolo di persone, si può costruire un rapporto con ognuna di esse, insegnare e imparare da loro. E’ un’occasione per affinare le doti di comprensione, mediazione, leadership, ricorrendo a mille approcci e tecniche diverse, contando oltretutto su un feedback continuo e tangibile (perché, hello capoufficio, non ti sposti da un consiglio di amministrazione a un’altro sul tuo jet privato come Richard Branson e Donald Trump, ma sei nella stessa stanza). Se un capo continua a ricorrere a meccanismi paternalistici o coercitivi, sbologna e non delega, c’è ma non ascolta, a mio parere gli mancano delle skills fondamentali.
Il middle-management può essere così bello e umano che alcuni mantengono certe abitudini da capoufficio anche quando sarebbero chiamati a guardare oltre. Ho lavorato per alcuni anni in una SpA, che era stata acquistata da un imprenditore con l’intenzione di risanarla per poi rivenderla ad un grande gruppo (cosa che fece con successo). Era stato quindi assunto un general manager con l’obiettivo di riscrivere l’azienda da capo (cosa che fece, anche questa, con successo). Questi era ed è un uomo di rara intelligenza, preparazione, energia. Stakanovista ai massimi livelli, memoria di ferro, prendeva appunti su tutto e faceva a mente dei calcoli complessissimi. Vedeva un report e nel giro di 2 secondi aveva trovato l’errore, quello che all’autore del file era sfuggito. Spesso eccessivamente puntiglioso: una rivista di settore venne a intervistarlo ma alla terza volta che gli fece riscrivere ed editare tutto il testo, il giornalista desistette e l’articolo non uscì mai. La sera, prima delle riunioni importanti, si chiudeva in hotel e provava le negoziazioni allo specchio. Come nella migliore tradizione, era irascibile e aveva scatti di rabbia leggendari, solitamente suscitati da lentezza di comprendonio (se l’interlocutore era un uomo) o testardaggine (se invece era una donna).
Aveva una soglia di concentrazione sovrumana: mi è capitato molte volte di uscire dalle riunioni alle 9:30 di sera, sfatta e sudata mentre lui era lucidissimo e fresco come una rosa. Durante le vacanze, anziché spalmarsi al sole dei Caraibi, andava sulle Dolomiti a camminare. Disciplinato fino all’eccesso, era un fanatico della dieta Zona di Barry Sears. In qualsiasi condizione, alle 11 si fermava e mangiava 200g di yogurt magro.
Per anni, era entrato così nel merito di ogni singola microprocedura che non riusciva veramente a fidarsi di nessuno, e viveva in bilico tra il bisogno di delegare e l’ansia di controllo. Ma quando l’azienda entrò in Borsa, decise che la struttura doveva camminare sulle sue gambe, e lo vedemmo sempre meno. Verso dicembre, riuscii ad ottenere udienza per un colloquio di avanzamento, e gli chiesi di riproporzionare il mio stipendio all’impegno che mi veniva richiesto. Lui mi disse che il mio carico di lavoro era assolutamente ragionevole, e che probabilmente ero stanca perché non mi alimentavo in modo corretto. Non mi diede l’aumento, non mi alleggerì il mansionario, ma il giorno dopo mi portò delle mandorle. Penso volesse dirmi che gli importava del mio benessere.
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