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Monumenti a confronto: Aleksandr Puškin e Vladimir Majakovskij

Da Paolo Statuti

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Vladimir Majakovskij – l’istrione buono, il gigante scomodo, il profeta della verità, nel 1930 doveva aver fiutato aria di morte, per scrivere il suo poema-testamento, il suo messaggio ai posteri. Esso è un’infocata protesta contro tutto ciò che egli considera sbagliato, sconsiderato, inutile. Egli vuole che il lettore lo ascolti, che la sua poesia sia tramandata alle generazioni future. Il poeta protesta per il bene della gente. Si definisce “fognaiolo”, cioè colui che pulisce le fogne del mondo, che ne mostra il lato più sporco e ripugnante, e urla “a tutta voce” contro l’assoluta indifferenza dei contemporanei e la loro inerzia per la conquista di una vita migliore.
Il poema “A tutta voce” si può equiparare alla celebre poesia “Mi sono eretto un monumento” di Aleksandr Puškin. Entrambi i poeti volevano lasciare la loro impronta, entrambi lottavano per la libertà e la giustizia. Majakovskij contro la “melma” del mondo, Puškin contro la “plebaglia”. E’ significativo che i due componimenti poetici siano stati scritti alle soglie della morte dei due grandi poeti, e che entrambi abbiano pagato con la vita la loro utopistica aspirazione.
Eccoli nella mia traduzione.

Mi sono eretto un monumento non di opera umana…
(Я памятник себе воздвиг нерукотворный…)

Exegi monumentum
Mi sono eretto un monumento non di opera umana,
Non s’infesterà il sentiero che vi si avvicina,
Con la testa indocile s’è innalzato più alto
Della colonna alessandrina.

No, non morirò del tutto – l’anima nella diletta lira
Sfuggirà le ceneri, la putrefazione certamente –
E sarò famoso, finché nel mondo sublunare
Anche un solo poeta sarà presente.

Parleranno di me in tutta la grande Rus’,
E mi nomineranno nei loro propri linguaggi,
Il fiero nipote degli Slavi, il Finlandese, il Tunguso
E il Calmucco, figlio delle steppe selvagge.

E a lungo al mio popolo io sarò caro,
Che in un tempo crudele ho lodato la Libertà,
Che ho acceso i buoni sentimenti con la lira
E verso i caduti ho invitato alla pietà.

Ascolta, o Musa, il comando divino,
Non temendo le offese, non chiedendo corone,
L’elogio e la calunnia accogli indifferente
E con gli sciocchi non entrare in discussione.

1836

A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)

Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, -
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, -
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

1929-1930

(C) by Paolo Statuti


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