Anna Lombroso per il Simplicissimus
35 arresti, 100 indagati, si concluderà miseramente nelle aule giudiziarie la leggenda della eccezionale opera di ingegnerai che doveva salvare Venezia dalle acque?
Stamattina ai veneziani vengono in mente – con una certa voluttà – quei film degli anni ’50, in bianco e nero, che mostravano una Serenissima percorsa da intrighi, fornaretti e dogi sleali condotti in catene ai sinistri Piombi e dimenticati là, a languire.
Eh si, perché insieme al sindaco Orsoni, (eletto nel 2010 nella coalizione di centro sinistra), arrestato per corruzione, concussione, riciclaggio, altre 34 figure di spicco della nomenclatura lagunare sono ai ceppi nell’ambito di una indagine avviata tre anni fa e un centinaio sarebbero gli indagati.
Più discusso del Ponte sullo Stretto, ma certamente più redditizio, il Mose “pigliatutto”il primo “modulo sperimentale elettromeccanico”era stato da subito, dal lontano 1988, quando ancora si chiamava progetto REA, Riequibrio e Ambiente, considerato innovativo, irrinunciabile, insostituibile – e adesso sappiamo perché – quando venne imposto dopo una selezione “formale”, visto che non c’erano alternative, effettuata nel 1981 dal Ministero dei Lavori Pubblici. Come per il Ponte, gran parte dell’attività del Mose è “progettuale”, “cartacea”, di anno in anno la conclusione dei lavori che dovrebbero salvare Venezia dalle acque, viene rinviata. E per fortuna verrebbe da dire, se a Chioggia durante le sagre del patrono rapper locali cantano sulla musica di Ramazzotti: “Mose-Mosè, più bella cosa non c’è”, cui fanno da contro canto i pescatori chioggiotti, persuasi per esperienza sul campo che quando le dighe del Mose saranno definitivamente incassate nelle bocche di porto manderanno all’aria quel poco di economia della pesca che ancora sopravvive.
È che “la più imponente e innovativa opera in costruzione oggi in Italia” come la definiva il sindaco in manette, ha suscitato dubbi e polemiche almeno da quando venne trionfalmente inaugurata in mezzo alle acque come tanti Cristi del CAF, dal Ministro De Michelis, dal Presidente del Consiglio Andreotti, dal Ministro dei Lavori Pubblici Prandini, che benedissero l’eccezionale progetto di “eccellente ingegneria”, senza curarsi di obiezioni, pareri tecnici, valutazioni contrarie. Nel 1989 il voto contrario del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici viene “cassato” da un pronunciamento del Consiglio dei Ministri. Il Governo Amato nel 1999 fa spallucce al parere negativo di Via emesso dalla Commissione del Ministero dell’Ambiente. Così come il succedersi di governi, da Dini a Berlusconi e Prodi, spazzano via i dubbi degli organismi tecnici e economici, sovrintendenze, Corte dei Conti, Commissione Europea. Fino alla beffa dell’istituzione di una Commissione ad hoc, voluta dal ministro “ossimoro” Baratta, che unisce in un’unica divinità ministeriale, ragioni ecologiche e esigenze costruttive, natura e cemento, Ministero dell’Ambiente e Ministero dei Lavori Pubblici, della quale fanno parte cinque “saggi super partes”, tra i quali Costa, poi sindaco e oggi abominevole uomo delle navi, soprattutto maxi, all’autorità portuale, il cinese Chang Mei e l’olandese Vellinga, contemporaneamente consulenti del Consorzio e chiamati a giudicarne operato e azione.
Ma si sa che il conflitto d’interesse da noi non fa paura. E nemmeno lo spauracchio delle inchieste giudiziarie. Il budget del progetto di massima che prevedeva un costo di 3200 miliardi di lire, lievita arrivando ora a una previsione di 5 miliardi e mezzo di euro, gestione e manutenzione esclusa, mentre le acque alte si ripetono senza la tradizionale frequenza stagionale, con punte eccezionali. Almeno quanto eccezionale è la decisione bi partisan di affidare ad un unico soggetto, il Consorzio Venezia Nuova appunto, le attività di progettazione, gestione, controllo dell’opera, cui si aggiungono altre competenze, compresa la bonifica e il ripristino ambientale degli eventuali interventi inquinanti posti in essere dagli scavi e dalla realizzazione delle dighe mobili.
Non a caso dopo alcune presenze scialbe ne prende definitivamente le redini il suo ideatore e fondatore, l’ingegner Mazzacurati, un vecchio leone indomabile nel fare affari, che ricorda il Cerroni delle discariche laziali, che estromette Impregilo, occupata su altri brand faraonici e sceglie come maggiore azionista la Mantovani SpA, impresa edile padovana presieduta da una vecchia conoscenza, anche delle procure, Piergiorgio Baita, già arrestato nel 1992 in piena Tangentopoli, finito in manette nuovamente nel settembre scorso, all’avvio dell’inchiesta. Ancora una volta come nel ’92, è probabile che Baita, dipinto come il compagno di merende di Giancarlo Galan, si sia salvato da una lunga lista di accuse a suo carico, parlando. E raccontando di fatture false, appalti opachi, finte consulenze, concessioni “esclusive” in ottemperanza alla moda imposta proprio da loro del project financing, un sistema pensato e applicato per favorire sempre gli stessi soggetti, sotto l’ala protettrice della Mantovani, presente ovunque: strade e autostrade, passante di Mestre,tram, ospedali, bonifiche, scavi di canali – chissà se si aggiudicherà malgrado tutto anche quello di Contorta, per favorire i nuovi corsari delle crociere – operazioni immobiliari, rigassificatori, darsene e speculazioni del Lido, sub lagunare.
Era stato sotto la gestione combinata di Galan e dell’assessore Chisso, il secondo in manette, mentre per il primo è partita la richiesta di arresto, che la Mantovani, e per suo tramite il Consorzio, diventa un monopolio: si aggiudica tra i finti mugugni del sindaco, l’arsenale e i suoi storici bacini di carenaggio, acquisisce la Thetis, la società di ricerca cui sorprendentemente viene affidata una direzione dei lavori, quelli appunto del Mose. E via via mette le mani su tutta la Regione, su tutte le opere, presenti, future, con una certa italianissima predilezione per quelle che non si faranno mai e che perciò sono ancora più redditizie, tra multe, rivalutazioni, sanzioni, stati d’avanzamento virtuali.
Dopo tanti anni di sospetti e esplicite dimostrazioni, una bella scrematura del malaffare veneto è stata fatta. Ma l’esperienza ci fa sospettare che non sia una resa dei conti: la città decapitata è sempre a rischio. Né Cacciari né Orsoni hanno pensato di fermare la faraonica macchina mangiasoldi. Lo farà mai un loro successore? Il soave presidente dell’Autorità Portuale, l’ex sindaco Paolo Costa, non si perita di narrarci che grazie al Mose, alle bocche di porto e allo scavo del canale Contorta Sant’Angelo, quello dove dovrebbero passare orgogliose le grandi navi, sarà possibile ricostruire la morfologia del bacino centrale della laguna. Come se l’agonia di quell’ambiente unico, dinamico, potente eppure vulnerabile, non si dovesse al Canale dei Petroli con le circa 4 mila navi che vi passano ogni anno – e il Contorta ne sarà la replica – agli effetti erosivi provocati dallo spostamento di migliaia e migliaia di tonnellate d’acqua innescato dal passaggio delle navi, all’indifferenza perversa di una classe dirigente che non ha fatto nulla di quello che faceva secoli fa la Serenissima, pulizia dei rii, rinascimenti, opere in una perenne azione di governo razionale di acque e territorio. Ma allora il rischio erano le maree d’acqua, ora sono quelle mefitiche e velenose della speculazione, della corruzione, che unisce tutti in una aberrante alleanza della quale Venezia è il teatro esemplare e dalla quale c’è da temere che non si salverà, come una moderna Atlantide.