A Mosul, seconda città dell’Iraq per importanza, esisteva da due millenni, nonostante le alterne vicende storiche, una delle più longeve comunità cristiane. Sino a qualche mese fa era composta da un migliaio di famiglie, ma oggi non più. Apprendiamo da numerose fonti giornalistiche – Sir e Asianews in primis – che adesso, per la prima volta, Mosul non ha più cristiani.
La città era stata occupata lo scorso 9 giugno dai miliziani “jihadisti” dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) – i quali rivendicano un califfato salafita/wahhabbita su una vasta area a maggioranza sunnita compresa tra la Siria e l’Iraq – che avevano iniziato a vessare tutti gli “infedeli” (si badi bene, non solo la minoranza cristiana, ma anche i numerosi musulmani sciiti, curdi, shabak e yazidi) intimandoli, con un ultimatum lanciato dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi, di convertirsi o di pagare la jizya (il tributo che sino ai tempi degli ottomani gravava sui sudditi non-musulmani, in cambio di alcune protezioni civili) oppure di andarsene immediatamente, altrimenti «l’unica opzione resta la spada», ossia la morte. L’ultimatum sarebbe scaduto alle ore 24 di sabato scorso 19 luglio.
Le cose si complicano ulteriormente dato che l’ISIL ha lasciato il controllo della città – o perlomeno dei quartieri orientali – ai baathisti sufiti della Naqshbandi Army (Jrtn) guidata da Izzat Ibrahim al-Douri, come conferma il governatore di Mosul Atheel Nujaifi al quotidiano britannico The Guardian. Si palesa quindi l’implicita alleanza anti-governativa (e soprattutto anti-iraniana) tra Jrtn e ISIL, che ha preferito spostare le forze d’attacco nella città Tikrit per espandersi territorialmente.
Nel mentre era stato ordinato ai funzionari pubblici dei quartieri di Rifaq e di Kifaat di sospendere per i cristiani e gli sciiti la distribuzione della razione di cibo – tra cui generi di prima necessità come farina–, di acqua e di bombole del gas a prezzo calmierato cui hanno diritto tutti gli altri abitanti di Mosul, città disastrata dagli scontri. Qualsiasi contravvenzione è perseguita ai sensi della sharia, la legge islamica. Inoltre, con l’instaurazione del califfato, le abitazioni dei cristiani di Mosul sono state marchiate con una “N” cerchiata – che significa “nazareni”, cristiani – spesso affiancata dalla scritta in arabo “bene immobile di proprietà dello Stato islamico”. Sorte analoga per gli abitanti sciiti, le cui case sono ora contrassegnate dalla lettera “R” di “raafida”, che letteralmente significa “quelli che rifiutano”, termine offensivo per indicare chi non riconosce la tradizionale successione del califfo Abū Bakr al profeta Maometto e, per via estensiva, gli sciiti e coloro che rigettano l’autorità del califfato.
Tutti i cristiani di Mosul, terrorizzati anche dai bombardamenti governativi volti a riacquisire il controllo del territorio, hanno preferito lasciare la città diretti verso Dahuk, la Piana di Ninive e il Kurdistan, che difficilmente riuscirà ad accogliere ulteriori rifugiati. Con tutto ciò, raggiunti i check point, gli islamisti «li spogliano di tutti i loro averi, denaro, effetti personali, anche le auto sulle quali viaggiano» costringendoli quindi «a camminare per chilometri sotto il sole per arrivare ai primi villaggi cristiani fuori città», stando a quanto afferma Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo cattolico di rito latino di Baghdad, che non riesce a capacitarsi di un simile odio: «Che male hanno fatto i cristiani? Che fastidio danno? Perché accanirsi contro di loro? Domande che non trovano risposta». Sleiman racconta anche di profanazioni di tombe e di un antico convento trasformato in moschea.
Gli fa eco Mons. Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, che parla di «esodo forzato» ed esterna i timori per questa «guerra civile» che si sta scatenando – oltre ai cristiani, sarebbero più di un milione i musulmani in fuga – e invita quindi la comunità internazionale a intervenire per via diplomatica. Di fronte a questo scenario, con la scarsità di acqua, elettricità e cibo, si può parlare senza ombra di dubbio di una grave emergenza umanitaria, come sottolinea il vescovo di Anbar dei Caldei Monsignor Warduni, direttore della Caritas Iraq, che lancia «un appello per aiuti che ci consentano di alleviare le difficilissime condizioni di vita di queste persone». Warduni constata con amarezza che ora sventola la bandiera dell’ISIL sul palazzo episcopale caldeo, mentre quello dei siro-cattolici di Mosul è stato dato alle fiamme, notizia data dal patriarca siro di Antiochia Ignace Joseph III Younan, ricevuto sabato in Vaticano.Pare che non siano stati risparmiati né la biblioteca, né i manoscritti. Dal patriarca Ignace Joseph III arriva però anche un’altra accusa molto pesante. Ai microfoni di Radio Vaticana, alla domanda su come fermare l’avanzata dell’ISIL, è molto chiaro: «Sospendere tutti gli aiuti finanziari. Da chi ricevono le armi? Da questi Paesi integralisti del Golfo, con il placet di politici occidentali, perché hanno bisogno del loro petrolio». Una amara constatazione da tempo sotto gli occhi di molti analisti, che però in pochi sono disposti ad ammettere. La cosiddetta “strategia del caos” di Obama implica proprio questo, ossia il sostegno all’una e all’altra parte in conflitto, con repentini cambiamenti di campo a seconda delle circostanze, per fare il bello e il cattivo tempo. L’obiettivo più evidente è quello di garantirsi il controllo delle risorse strategiche, che in Iraq restano indubbiamente quelle petrolifere, a prescindere dagli interlocutori.
Certamente non vanno neppure ignorati i dissidi anche nella compagine “islamista” tra ISIL, compagini tribali e il Fronte Al-Nusra, questo maggiormente legato ad Al-Qaeda, che hanno comportato anche scontri sanguinosi per contendersi il territorio, specie nel nord-est della Siria. Si apprende anche che, dopo la proclamazione del califfato wahhabita e dell’appello di Abu Bakr al-Baghdadi, si sono uniti all’ISIL alcuni battaglioni dell’Esercito Siriano Libero e di Al-Nusra, entrambe forze ostili al presidente siriano Bashar Al-Asad.
Per un occidentale forse non è semplice comprendere le dinamiche interne a quelli che generalmente vengono definiti “estremisti islamici”, ma lo scontro potrebbe essere prevalentemente ideologico, tra gli alqaedisti che preferiscono adottare tattiche di guerriglia e l’ISIL che punta ad una maggiore organizzazione statale e militare, forte anche delle ampie disponibilità economiche derivanti sia dal controllo della banca centrale e delle risorse petrolifere, sia (molto probabilmente) dai finanziamenti dei paesi del Golfo, che tuttavia potrebbero temere un eccessivo rafforzamento del califfato.
In Iraq, l’ISIL ha approfittato della debolezza politica del paese, che è uscito ancor più frammentato e polarizzato dal risultato delle ultime elezioni parlamentari del 30 aprile. Anche se nei giorni scorsi si è raggiunto l’accordo che ha eletto il sunnita moderato Salin Al-Jabouri alla presidenza del Parlamento iracheno, mancano ancora due cariche da attribuire: quella del Premier e quella del Presidente della Repubblica che, secondo la consuetudine del regime vigente dopo la caduta di Saddam Hussein, dovrebbero spettare a uno sciita e a un curdo.
Il nome dello sciita Nuri Al-Maliki, premier uscente che conferma una debole maggioranza relativa di 92 seggi su 328, sembra non essere gradito a molti, né ai sunniti, né agli sciiti maggiormente filo-iraniani come Muqtada Al-Sadr e Muhammad Baqir al-Hakim, che guidano rispettivamente la seconda e la terza forza politica irachena per numero di seggi, una trentina ciascuna. Nel frattempo i partiti curdi che, divisi in sei partiti diversi, hanno ottenuto complessivamente una sessantina di seggi, avanzano richieste indipendentiste sempre più insistenti. Al-Maliki potrebbe assecondarle per ottenere il loro sostegno politico e militare, anche per fronteggiare l’ISIL.Al-Maliki ha governato l’Iraq per otto anni anni e – non a torto – gli vengono rinfacciate una politica collaborazionista con gli occupanti statunitensi, misure di austerità e di privatizzazione che, in un clima di corruzione sempre più dilagante, hanno portato il paese alla distruzione dell’economia nazionale, mentre le risorse derivanti dal petrolio venivano distribuite in modo clientelare o per acquisti militari, con insofferenze sempre crescenti da parte della popolazione sunnita, quella che più ha sofferto discriminazioni economiche e politiche nella fase di de-baathizzazione del paese. Di qui si spiegano allora le “rivolte urbane” antigovernative degli ultimi mesi che, avendo poi preso una piega ideologica fortemente anti-sciita e anti-iraniana, hanno creato un clima di ostilità che l’ISIL è riuscito prontamente ad egemonizzare, acquisendo così il controllo del “triangolo sunnita”, che ospita un nodo energetico strategicamente importante.
Tuttavia ora Al-Maliki esclude la formazione di un governo di unità nazionale per fronteggiare l’ISIL – ipotesi caldeggiata dagli USA, che sembrerebbero gradire un esecutivo guidato dallo sciita Ahmed Chalabi, considerato maggiormente “malleabile” – e continua a proporre come via privilegiata il tentativo di ricompattare le frammentate forze politiche sciite che, considerando anche i partiti minori, potrebbero raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi e garantire una maggiore omogeneità religiosa. Però lo sciita filo-Hezbollah Muqtada Al-Sadr potrebbe rivelarsi un ago della bilancia, perché nella sua opposizione ad Al-Maliki, definito senza mezzi termini «un dittatore» e nella ferma resistenza contro l’avanzata dell’ISIL, potrebbe riuscire a coinvolgere i sunniti moderati e le forze che si oppongono alla più che decennale occupazione americana. Qui però si scontrano interessi geopolitici contrastanti perché, secondo l’analista americano Rick Berger, «gli USA vogliono una stabilità che risolva alcuni dei disaccordi fondamentali nella politica irachena» mentre «per Teheran la stabilità è un governo sciita che imponga il proprio volere al Paese».
Nel frattempo, giorno dopo giorno, lo scenario sembra conformarsi sempre più a quello prospettato dalla cosiddetta “teoria di Gulliver” che prevede lo smembramento del territorio iracheno «in tre regioni semi-autonome: curda, sunnita e sciita», con un «limitato governo centrale a Baghdad», come prevede un piano presentato nel 2007 da Joe Biden al Senato statunitense, se non addirittura la creazione di tre stati indipendenti, vuoi con un Iraq guidato da un premier collaborazionista, vuoi nella sua “balcanizzazione”. Quel che è certo è che gli USA cercheranno di cogliere il massimo da quello che la situazione geopolitica saprà loro offrire.