PS3
TESTATO SU
PS3
Genere: Gioco di Ruolo Giapponese
Sviluppatore: Compile Heart, GCREST
Produttore: NIS America
Distributore: Namco Bandai Partners
Lingua: Inglese
Giocatori: 1
Data di uscita: 23/05/2014
PS3 |
Gli estremisti del moe ne rimarranno stregati... ... Ma giusto loro
Volendo c'è materiale a sufficienza per perderci centinaia di ore... ... Tuttavia ci si rompe molto prima
La fiera del cattivo gusto, per veri intenditori del trash orientale
Moe. Questo termine di origine nipponica è alla testa di un “movimento culturale” diffusosi a macchia d’olio a partire dal nuovo millennio, ridefinendo i media e trascinando il mercato nel Sol Levante. Il suo uso (e abuso) è comune, eppure è difficile attribuirgli un significato ben preciso. A voler esser sintetici, possiamo considerarlo il “fetish” di una persona per un modello comportamentale, una caratteristica corporea, un tratto del linguaggio, o persino l’abbigliamento, nei confronti di una ragazza (solitamente in età adolescenziale) prettamente fittizia, sia essa proveniente da un anime, un videogioco o altre fonti. Tsundere, kuudere, yandere, loli, ojou-sama, maido, nekomimi, ce ne sono per tutti i gusti, e sebbene inizialmente si trattasse di un fenomeno underground abbracciato dai soli e bistrattati otaku, la moda oggigiorno è decisamente cambiata, personaggi “stock” del genere vengono utilizzati e riciclati dappertutto, vuoi come riempitivo, fanservice, spalla comica, parodia o palese carenza di idee. Ciò sembra quasi avere un’accezione negativa, eppure il business in Giappone funziona alla grande, tanto che esistono interi quartieri dedicati al moe in tutte le sue forme, un po’ come da noi spopola il calcio o in America i fast-food (ops), ma non vogliamo approfondire oltre.
Il motivo di questa premessa? Presto detto: avere anche solo una vaga idea di cosa sia il moe ci semplificherà non poco la vita nello sviscerare il titolo che andremo ora a introdurre, poiché Mugen Souls Z, sequel dell’omonimo Mugen Souls per PS3, sviluppato da Compile Heart (già autrice del corroborante Hyperdimension Neptunia) e distribuito in Europa da NIS America, è moe concentrato; lo ritroviamo nei dialoghi, nello stile grafico, persino nelle meccaniche di gioco. È curioso come produzioni simili, prodotte da giapponesi per giapponesi (con tutto rispetto per gli appassionati occidentali, me compreso; NdR) vengano importate, quando dai nostri scaffali ancora latitano perle orientali di rara bellezza, richieste a gran voce dai fan; ah, se tutti i publisher fossero come NIS… Sapete un altro concetto, preferito dal sottoscritto, per descrivere appieno il moe? Stereotipo. E Mugen Souls Z ne è stracolmo, purtroppo…
I HOPE GAMER-SEMPAI WILL NOTICE MEInquadrare Mugen Souls Z non è affatto semplice. È un titolo spudoratamente commerciale, o nel suo modo di fare poco sofisticato c’è un fondo di ironia? I personaggi infatti non sembrano prendersi sul serio, tanto meno la storia, sconclusionata e piena di siparietti ridicoli, come la stessa NIS ci ha più volte deliziato con i suoi Disgaea e parenti, ed è sotto quest’ultima ottica che abbiamo deciso di abboccare all’esca e muovere i primi passi in questo universo demenziale in attesa di qualche sorpresa, dopotutto un setting sopra le righe non è necessariamente un difetto, anzi. Eppure, con il passare delle ore, e successivamente delle decine di ore, nulla si è mosso dal suo piedistallo, il cast si è ampliato, ma non le sue vedute estremamente limitate, mentre la trama si è arrestata precisamente dove è partita, fossilizzandosi sullo stesso, noiosissimo pattern, ripetuto senza ritegno di capitolo in capitolo, affondando il nostro già precario interesse nel tedio più assoluto verso le battute finali. Sviluppi imprevisti, colpi di scena, Mugen Souls Z non ha la più pallida idea di cosa siano, preferisce crogiolarsi nella sua narrazione dal ritmo soporifero, caratterizzata da un intreccio lineare e privo di mordente, e dialoghi dilatati con le pinze, inutili, volgari e pesanti da leggere, fallendo persino come commedia, merito di una pletora di gag anche loro fiacche, ridondanti, a tratti offensive addirittura. Siamo abbastanza ferrati in materia, il fanservice gratuito e il nonsense random tipicamente nipponico oramai sono praticamente di casa, ciononostante anche così trovare spunti divertenti è stata un’impresa, soprattutto quando le medesime battute vengono riciclate a oltranza, giusto in caso quella precedente ci fosse sfuggita. A che pro esasperare il proprio tratto distintivo se poi non si ha alcuna intenzione di affrontarlo sotto una luce diversa e l’intrattenimento viene a mancare, fatta eccezione per quella manciata di buongustai, pronti a passare tutto per buono pur di vedere scollature fuori scala, abbigliamento inappropriato, tentacle rape, e altri luoghi comuni irritanti come il palinsesto dell’italiano medio? Può davvero far presa in occidente un format del genere? E perché? Ciò va oltre la nostra comprensione.
Una rapida sinossi: completato un tutorial abbastanza sofferto (leggasi interminabile e pieno di testi a schermo) in compagnia di Chou-Chou, la “divinità indiscussa” protagonista del primo capitolo, volgeremo il nostro sguardo a un nuovo universo da conquistare, dove la pestifera eroina farà la conoscenza di Syrma, una ragazza ibernata all’interno di una enorme bara. Dopo delle presentazioni mai troppo sbrigative a causa dell’amnesia di Syrma e l’innata tendenza dei personaggi a girare intorno al nocciolo della questione, Chou-Chou finisce a sua volta dentro la bara (pardon, il Signor Bara), che ne risucchia tutti i poteri, riducendola alle dimensioni di una bambola di pezza. A seguito del bizzarro evento, Syrma si scoprirà essere un “Ultimate God”, e facendo uso delle abilità sottratte a Chou-Chou (che per ripicca si stabilisce sulla sua testa), inizierà la sua campagna di sottomissioni dei 12 pianeti, sconfiggendo le divinità locali e radunando gli eroi sparpagliati da Chou-Chou prima che si caccino in mezzo ai guai, o accadrà qualcosa di brutto, forse… Non che a qualcuno importi. Una volta che le redini saranno in mano al giocatore, quel che resta da fare è ripetere la stessa tiritera per ogni pianeta: si scende sulla superficie, si peonizza (schiavizza? Cattura? Ammalia?) la fauna, poi tutto il globo, indi si scende nelle rovine di turno, boss, ripeti, ovviamente sorbendosi qua e là scambi di battute stupide e fuori luogo, almeno nella stragrande maggioranza delle occasioni. Di per sé un’atmosfera leggera e accomodante non sarebbe un problema, anche quando ripetitiva come in questo caso, se non fosse che in Mugen Souls Z protagonisti e comprimari non mostrino un briciolo di carisma, e la loro personalità sia monocorde, scontata, inesistente tranne qualche dettaglio insignificante che porteranno avanti fino al nostro esaurimento nervoso: abbiamo la solita tsundere saccente, la solita loli iperattiva e rumorosa, il solito zerbino che adora essere calpestato, la solita “timida” che si esprime a pugni, la solita idol egocentrica, il solito fanboy perverso con la facciata da gentiluomo, il solito cosplayer con la fissa per i supereroi, la solita svampita, il solito cascamorto sfigato… E poi? Nulla, manco ci ricordiamo i loro nomi, figurarsi. Nessuno è in grado di contribuire concretamente alla storia, ma nessuno sembra essere in grado di chiudere il becco; se si parla, ognuno deve necessariamente dire la sua, anche a costo di ripetersi o infilare commenti a caso in un copione già ingolfato di suo. Il lato positivo? Si possono saltare quanti dialoghi si vogliono, tanto basteranno sempre due secondi per ritrovare il filo, e in un GdR è tutto dire.
NON CHE VOGLIA UCCIDERTI, MA…Il comparto narrativo non sarà il massimo, tuttavia a livello di gameplay Mugen Souls Z non scherza, benché gran parte del materiale sia stato ereditato e raffinato sulla base del predecessore. Il titolo si prende il suo tempo per introdurre minuziosamente le numerose meccaniche al giocatore (il tutorial è destinato a trascinarsi per ore, tra varianti sul tema e nuove opzioni con cui smanettare), svelando un’infrastruttura molto articolata e con una forte enfasi sul grinding. I richiami al già citato Disgaea si sprecano, e in linea generale sul profilo gestionale si avverte un’amara nota di semplicismo, che comunque permetterà a chiunque di cimentarsi nell’opera senza impazzire, nonostante la mole ragguardevole di contenuti: customizzare e fondere tra loro Peon creati ad hoc, raccogliere materiali per il crafting dell’equipaggiamento, di cui poter inoltre migliorare i parametri e assegnare materie prime, ottenuti rottamando armi e armature scartate, scegliere accuratamente la formazione d’attacco e la panchina, innalzare il level cap delle skill e potenziarle di conseguenza, agghindare il party con abiti e accessori per ottimizzare l’aumento delle statistiche, far visita alle terme per ulteriori bonus… Fintanto che denaro e Mugen Points abbondano il ventaglio di possibilità offerto è notevole, peccato che una volta svuotate le casse gli unici metodi per rimpinguarle si limitino a ripercorrere assiduamente le aree già conquistate o sfidare il Mugen Field, corrispettivo dell’Item World, tanto comodo per fare cassa ed expare senza perdere giornate intere, quanto irritante per via dei frequenti crash che affliggono la discesa dei primi piani (un fenomeno piuttosto comune a giudicare dai topic in rete). Tanta roba sulla carta, ma a dirla tutta le soddisfazioni elargite da Mugen Souls Z una volta affondati i denti nella formula di gioco scarseggiano, forse perché, proprio come trama e cast, l’esperienza concepita da Compile Heart è vuota, insipida, statica, un’interminabile filastrocca di poche strofe che esige attenzioni e tempistiche inconciliabili con la ricompensa finale; delle circa 30 ore per completare la campagna principale (non mancano ovviamente late game e NG+), almeno la metà le abbiamo passate grindando, e per cosa? Fare più danni, punto. Sul serio, le basi per eliminare rapidamente i nemici si apprendono nel giro di una sessione sbrigativa, per il resto l’esito delle battaglie verte quasi esclusivamente sui rapporti di forza, o su chi attacca per primo.
Le cause di ciò sono riconduncibili al battle system, estremamente esile, a dispetto delle apparenze. Al di là di un’impostazione che ricorda uno dei tanti Tales Of, solo a turni (qualcuno potrebbe azzardare un paragone con il vetusto Quest 64), l’arsenale di Syrma & Co. è composto essenzialmente da skill offensive e curative; vero, c’è il Blast off, le Linked Skill, l’Ultimate Soul, le mosse finali, ma il sunto è sempre pestare o essere pestati. In teoria il punto di forza dei combattimenti dovrebbe essere rappresentato dall’affinità (leggasi fetish) delle varie unità, un po’ come gli attributi nei GdR classici, tuttavia, salvo rare occasioni, non ci è sembrato che affrontare un mostro in possesso di particolari “gusti” con un tipo o l’altro faccia grande differenza, fatta eccezione per Syrma che, analogamente a Chou-Chou in Mugen Souls, può cambiare personalità a comando e ricorrere al Fetish Pose per trasformare in Peon i malcapitati nemici. A differenza del randomico Moe Kill nello scorso capitolo, il grado di affezione, gioia e rabbia può essere supervisionato durante il processo di conquista, rendendo il farming molto più agevole, indipendente dall’umore o dal numero di bersagli, inoltre vedere un behemoth o un ragno gigante essere acchiappati al volo da una bara dopo che una ragazzina li ha ipnotizzati sventolandogli in faccia la gonna è abbastanza divertente… Per un po’. Ego, sadist, masochist, terse, ditz, hyper, graceful, bipolar… Otto stereotipi agli antipodi per otto protagoniste differenti, ognuna dotata di abilità esclusive, non suona poi così male, purtroppo, a differenza di Chou-Chou, Syrma sembra scimmiottare questo potere, tanto che distinguiamo il suo carattere corrente dal colore dei capelli e poco altro, idem per le pose; ripetere la stessa operazione diventa in breve stancante, ma non possiamo farne a meno, poiché accumulare Shampuru è fondamentale per progredire nel gioco, e qui caschiamo di nuovo nel tedio di cui vi parlavamo sopra; i duelli a bordo del G-Castle sono una piacevole distrazione, ma non giustificano certo lo sbattimento. Il mini-gioco a base di massaggi, bolle di sapone e banane invece lo avrebbe fatto, ma è stato rimosso dalla versione occidentale. Il ché non ci sorprende…
KIRA-KIRAAADesign super deformed, occhi enormi, colori sparati verso l’infinito, distorsione della fisica e sapienti movimenti di telecamera in favore del fanservice ove possibile, “plot” a gogo, quelli di Compile Heart non si sono risparmiati nel dare alla loro creatura quel personalissimo tocco da “anime di seconda categoria moe moe, kyun kyun”, di quelli che guardi in quei momenti di noia cosmica, a cui basta essere sottoposti per un paio di minuti prima di avvertire gli arcobaleni che risalgono su per l’esofago; non possiamo dire di apprezzarlo, ma se non altro si addice allo stile del gioco. Dal punto di vista tecnico gli effetti speciali (pucciosi pure loro) e la qualità delle texture è sicuramente migliorata rispetto a Mugen Souls, tuttavia rispetto agli standard di parecchie produzioni odierne (anche e soprattutto in riferimento a quelle ispirate all’animazione nipponica) Mugen Souls Z è sottotono, tanto da trovare più termini di paragone con i titoli sviluppati nei primi anni di vita della console: modelli poligonali spigolosi e ridotti all’osso, level design sciatto e trasandato, animazioni elementari, va bene il moe, ma non se con il suo utilizzo profuso si spera di camuffare una povertà di dettagli e rifiniture sconsolante, che poco si addice a un sequel venduto nei negozi a prezzo pieno. Meglio la colonna sonora, allegra durante la navigazione nei menù, azzeccata al setting dei dodici pianeti da esplorare, e vagamente epica in occasione dei combattimenti, sebbene non si sfiorino i vertici della composizione videoludica e la varietà lasci a desiderare. Buono il doppiaggio originale, a tratti osceno quello inglese, non riuscendo a catturare (comprensibilmente) lo spirito di un cast di matrice prettamente jappo (Reu in primis). E non ditemi che Chouchers è un adattamento valido per Chou-Chou-chan…
IN CONCLUSIONEMugen Souls Z scampa alla bocciatura per il rotto della cuffia, merito della mole di contenuti oggettivamente consistente, che si traducono in una longevità altrettanto solida, a patto di riuscire a tollerare una formula di gioco fine a sé stessa, piatta e pedante in ogni suo aspetto, e una storyline tirata per i capelli, scandita da dialoghi che insultano l'umano intelletto. Pantyshot, innuendo, nudità celate quel tanto da non scadere nell'hentai, censure ipocrite, Compile Heart si riconferma come una software house che ha poco da spartire con i gusti occidentali, e sebbene apprezziamo la presenza di un titolo così atipico sui lidi nostrani, al tempo stesso non possiamo giustificare un prodotto mediocre, vendutosi alle mode e che non rende certo onore a un target ben più ampio e acculturato di quanto l'idiozia congenita di questo brand lasci intendere. Prendetelo in considerazione solo se siete davvero a secco di JRPG poco ortodossi e volete spegnere completamente il cervello (e sottolineiamo completamente), in caso contrario voltate pure pagina, ci sono dozzine di giochi e pantsu migliori a cui rivolgersi. ZVOTO 6