La terza uscita della nostra rubrica, dedicata al legame fra musica e letteratura, alla ricerca della melodia più adatta per assaporare al meglio il lavoro che lo scrittore ha faticosamente costruito per noi lettori, inizia da una domanda: quante cose avete perso nella vita?
Alcune le avrete perse di proposito, altre si saranno sfilate dalle vostre dita in una notte insonne in cui eravate alle prese con problemi più “concreti”, come riuscire per esempio a rendere insonorizzata la stanza di vostro figlio di sedici mesi, che piange da tre ore ininterrottamente, oppure come dimostrare al “capo” che anche voi siete capaci di decidere e scegliere, almeno una volta all’anno, una volta nella vita. Altre cose, le avrete viste sollevarsi dal vostro corpo, sottili e luminose, chiedendovi perché non provavate nemmeno ad accarezzarle prima che si rifugiassero fra le vostre malinconie. Per ogni gesto perso, per ogni volontà sfumata, per ogni confusa risposta che avrete accettato di conservare, lasciando andare via qualcos’altro, c’era qualcuno che era pronto a raccoglierle, qualcuno che le sfamava, le faceva germogliare e le disseminava, tutt’intorno a voi. Chi? Voi stessi, in un giorno diverso. In uno di quei rari giorni in cui ciò che è necessario per tutti si confonde con ciò che è imprescindibile solo per voi. Giorni in cui il fuoco che vi consuma si appallottola ai vostri piedi, dormiente, lasciando spazio all’acqua che da voi sgorgherà, avvolgendovi, costringendovi a perdere tutto ciò che avete sempre voluto perdere.
Sarà il momento di afferrare i versi di Elizabeth Bishop, poetessa americana del Novecento, esploratrice per eccellenza delle perdite necessarie. Sarà il momento di andare a cercare la musica di Ludovico Einaudi, pianista e compositore piemontese, scorrendo le tracce di un suo album del 2004, una mattina, soffermandovi su due brani (nuvole nereenuvole bianche) perfetti per arrischiarsi fra le righe di Elizabeth Bishop. Iniziate con una delle sue ultime raccolte (Geography III del 1976) in cui la Bishop pellegrina si muove fra le parole, nuvole veloci e luminose sopra la sua testa, nuvole dense e cupe sotto le sue ali, “cose” che si spostano e si affannano per farsi scegliere e che lei decide di dimenticare per non farsi influenzare dal nome stesso che, a queste cose, abbiamo dato. Nella sua poesia One Art [1] la Bishop ci rammenta che “l’arte di perdere s’impara presto” e che lei ha perso città, fiumi, un intero continente, cose su cose, eppure questa perdita spesso è diventata motivo e linfa per una nuova ricerca. Nuove cose da rubare a quelle nuvole che scorrono su di noi troppo velocemente per concederci una decisione. Quelle nuvole che Einaudi riuscirà a farvi scorrere nel sangue, rintocchi di una domanda, che si affina a ogni pulsazione del suo pianoforte. Quelle nuvole che non potrete raggiungere, a meno di fermarvi ad aspettare che la loro melodia vi doppi, sollevandovi e mostrandovi che perdere non è sempre un disastro.
[1] Le poesie di Elizabeth Bishop sono state trasposte in italiano da Damiano Abeni, Riccardo Duranti e Ottavio Fatica per Adelphi nella raccolta Miracolo a colazione, 2005, con testo originale a fronte. Nella stessa raccolta è presente la poesia One Art (L’arte è sempre quella), cui si fa riferimento nel post.
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