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My Funny Valentine – un assaggio da “Premio Strega” di Iannozzi Giuseppe

Creato il 10 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.

Il racconto My funny Valentine è presente in Premio Strega di Iannozzi Giuseppe.

My Funny Valentine – un assaggio da “Premio Strega” di Iannozzi Giuseppe
La caricai a bordo dopo una severa scelta fra quelle disponibili. Le negre non mi sono mai piaciute, ma erano quelle che la davano via a più buon mercato. Io volevo qualcosa che non mi costasse un occhio della testa ma che non fosse nemmeno d’ultima scelta. La intravidi per caso: alta bionda giovane, sicuramente una dell’Est, forse dell’Ex Unione Sovietica. Non avrà avuto più di vent’anni. Non aveva gli occhi pesti e non aveva la faccia di una che si fa in vena. Avevo visto giusto: una volta a bordo il suo profumo invase la macchina, un profumo dozzinale ma piacevole. Non era certo una di primo pelo, ma non era ancora sfondata, come si dice tra chi va a donne. Costava il giusto e teneva la bocca chiusa. Era quella adatta a uno come me. La mia Valentina.
Le fissai le braccia nude, in cerca di qualche eventuale buco che mi fosse sfuggito. Niente.
La mia Valentina si limitò a lasciarsi osservare.
La notte era profonda, una nebbia leggera ma demoniaca la tagliava la luce dei fari: poco più avanti ci scontrammo con un incidente, una macchina accartocciata, lamiere, sangue, i lampeggianti, polizia e ambulanze. Passammo oltre: pensai che doveva trattarsi della solita strage del sabato sera. Solo dopo che il luogo dell’incidente fu lontano dalla portata della nostra vista, la ragazza aprì bocca: “Bocca… figa… culo…”
Le risposi: “Tutt’e tre.”
Lei annui, se lo immaginava: “Costa.”
”Ho i soldi.”
Senza il prof costa di più.
“I soldi ce li ho”, ripetei ponendo enfasi su ogni vocale, perché capisse che da lei volevo tutto e che l’avrei pagata il giusto per questo.
“Va bene, ragazzo.”
Non disse altro.
Due ore. Avevo bisogno di due ore. A me le cose mi sono sempre piaciute fatte per bene.
Presi per una strada e poi per un’altra fino ad arrivare ad un hotel un po’ distaccato dalla città e soprattutto molto discreto. Il proprietario non era un pescecane, come molti altri del giro: io gli davo la sua mancia e lui chiudeva tutt’e due gli occhi. Se per farlo parlare l’avessero minacciato di strappargli la lingua con le tenaglie roventi, lui si sarebbe limitato ad alzare le spalle. Era sicuro, più di Cristo, che non avrebbe mai detto a chicchessia per nessun motivo al mondo che io o un altro della sua clientela andava a puttane. Non avrebbe mai messo nei guai un bravo padre di famiglia per una scappatella o due o dieci, fin tanto che alle ragazze non veniva fatto alcun male. Era proprio un gran signore: pretendeva solo che alle ragazze uno le trattasse per bene, che le pagasse il giusto e che non volasse un solo schiaffo. Infrangere una regola, una sola regola, sarebbe equivalso a trovarselo davanti, il che non era raccomandabile: per anni era stato in mare, tra il Canada fino alle Indie e in Giappone, a pescare; aveva fatto un po’ di soldi, aveva comprato l’hotel per non andare più in mare, ma la stazza del pescatore ce l’aveva ancora tutta, anzi, pareva che si allenasse per tenersi in forma. Non era consigliabile lasciarsi anche solo stringere la mano da uno come lui. Tra i marinai ne aveva viste sicuramente tante: uno o due o tre rompiballe lussuriosi non gli facevano né caldo né freddo. Ecco perché lo amavo: era un duro ma anche un signore con le donne e le puttane.
Mi feci dare una camera. Muddy, il proprietario, mi cacciò la chiave in mano, non degnò di uno sguardo la mia accompagnatrice, ma era come se avesse visto nell’eventualità che… Non ce n’era bisogno con me, con gli anni aveva imparato che anch’io ero un signore; tuttavia lui non voleva correre rischi e non gli potevo dar torto.
Una volta in camera, le dissi di spogliarsi. Lei cominciò a spogliarsi lentamente. Io le dissi di fare in fretta, non m’interessava uno spogliarello. Lei capì e si spogliò senza più tentare d’esser sexy.
Dio se era bella.
Più bella di quanto avessi immaginato.
Una femmina così non me la sarei mai potuta permettere se non pagandola.
Ero felice della mia scelta e già m’immaginavo sopra di lei a sudare sette camicie con il sorriso di dio stampato in faccia, quando lei mi diede le spalle per distendersi sul letto, pronta a ricevermi. Ma io la vidi. E da duro che era mi divenne moscio fra le gambe, anche se una simile cosa non avrebbe dovuto turbarmi, non più di tanto comunque.
Cercai di non pensarci, me lo schiaffeggiai: rimase fra le gambe inerte.
Mi accomodai accanto alla mia Valentina e sperando con tutto me stesso che mi tornasse presto duro le raccontai un paio di cose, senza significato. Poi le ordinai – sì, le ordinai – di dirmi di lei.
“Sei uno che gli piace parlare… Non mi sembrava.”
”Non mi piace parlare. Ma…”
“Ho capito.” Era una tipa sveglia. Giovane e furba: doveva essersene ripassati un bel po’ di uomini, anche se essenzialmente era ancora una bambina a vent’anni. La vita con lei non era stata generosa. Chissà quanto dolore. Ma non volevo pensare al suo di dolore. Io volevo scoparmela. Pagavo per stare con lei. Però non ce l’avevo più duro, e allora le chiesi della cicatrice sulla spalla sinistra.
“Una cosa vecchia… vicino al cuore…”, si limitò a dire lei. “Roba passata.”
Doveva averla scampata per il rotto della cuffia: il proiettile non le aveva sfiorato il cuore per puro miracolo. Questo pensai e non glielo dissi. Le chiesi invece di raccontarmi. Non voleva. E allora glielo ordinai. Il suo vocabolario era di poche parole, la grammatica di poche regole: raccontò, io l’aiutai, quello che non fu capace di tirarlo fuori lo immaginai. Le avevano sparato che era ancora una bambina di nove anni. Avevano fatto così a tutta la sua famiglia. Erano entrati in casa sfondando la porta e avevano preso a sparare. Li aveva visti cadere uno ad uno, come birilli, con un rantolo a metà in gola, prima il padre, poi la madre, le due sorelle maggiori, il fratello, la nonna. Poi un colpo era arrivato anche a lei: era caduta. Aveva creduto d’esser morta. Si era risvegliata, ma non era per niente felice d’esser viva. Passò da una casa a un’altra, tutti padroni diversi: a tredici anni incontrò il più bastardo, che le tolse la verginità. A quindici anni la caricarono su una camionetta verde: non era la sola, c’erano altre ragazzine insieme a lei. Passarono il confine e furono in Italia. Erano quasi cinque anni che si prostituiva ma non aveva mai accettato di farsi una pera, anche se le era stata offerta: nessuna droga, nessun analgesico anche quando qualche cliente la picchiava a sangue. Disse d’essere finita in ospedale, non lo sapeva più quante volte. Aveva sempre rifiutato gli analgesici: lei il dolore lo sapeva qual era…
Era una storia. Una delle tante, forse neanche la più atroce. Di storie così il mondo ne è pieno e se ne infischia.
Avrei dovuto infischiarmene anch’io. Me la sarei dovuta sbattere invece di farmi delle remore prima per la cicatrice, poi per la sua storia. Era un gran bel tocco di femmina.
Avrei dovuto…
Sospirai.
Raccolsi i pantaloni e me li tirai su.
Lei rimase in silenzio.
Le feci cenno di rivestirsi. Ubbidì.
Quando fummo tutt’e due vestiti, tirai fuori il portafogli, contai quanto avevo: gli diedi tutto, tenni per me dieci Euro.
Lei disse che era sbagliato, che due ore non costavano così tanto.
Le dissi che la notte era ancora lunga.
Non capì.
“Per questa notte hai finito di lavorare”, tagliai corto.
Lei non disse grazie né altro. Si limitò a intascare i soldi.
“Andiamo via di qui. Però fino all’alba insieme.”
Non replicò.
Se l’avessi scaricata, nonostante l’avessi pagata, sarebbe tornata sulla strada. Ne ero certo.
Muddy, prima di uscire dall’albergo, non lo so come, ma doveva aver intuito qualcosa.
Mi diede una pacca amichevole sulle spalle: “Offre la casa.”
Restammo insieme fino all’alba io e la mia Valentina.
Non parlammo più. Lei era seccata. Io imbarazzato. Lo sapevo d’essere un vigliacco. Non c’era bisogno che… ‘Fanculo.
Non potevo fare altro per lei. Solo aspettare l’alba e accendere la radio: un po’ di jazz, la voce quella inconfondibile de il brutto che canta ‘o jazz, Nicola Arigliano, Angel Eyes.


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