Andrea M. Campo. Un sorso di gin. Le mie dita picchiano indolenti sui tasti seguendo i singulti di un ritmo a levare. L’alcool lavora bene nel mio corpo affamato e appaga ogni senso; mi concede un breve euforia sospendendomi sugli abiti avorio delle ballerine, feroci e feconde predatrici che volteggiano sulle loro vittime danarose. Un altro sorso rubato in una pausa tra un do diesis e un la. E intanto guardo la mia vita masticata e risputata da un talento mediocre e senza prospettive. Mia madre lo aveva detto. Mio padre lo aveva detto. La mia ragazza mi ha lasciato perché stanca di dirmelo. Ma non ho voluto ascoltare. Come un cattivo giudice ho disatteso ogni principio di raziocinio e quel buon consiglio che a volte solo l’esperienza concede. E mi ritrovo qui, sospeso a pochi centimetri da queste travi tarlate che a malapena sopportano il riverbero di una nota troppo bassa.
In una lunga discesa verso gli inferi l’aria ha smesso di fischiare attorno a me, e nessun diavolo ha osato avvicinarsi. Così, dondolandomi nel mio vano traversare lo Stige perfino Caronte ha avuto pena di me. “Ti pago bene” ha detto e io ho ceduto. Ho concesso il mio corpo e la mia anima strozzata dalla paura di non riuscire. Senza mai ben capire di chi fosse quella paura. E adesso in una lunga pausa tra gli accordi in minore, nel vano tentativo di ricompormi, ho raccolto gli ultimi brandelli di una vita che non ho mai desiderato vivere rinchiudendomi nell’argilla del servo.
Ma a volte si deve suonare per sé stessi e non per gli altri. Per tutto ciò che ravviva il respiro, forgia un sorriso e gonfia una lacrima, per perdersi tra i volteggi della grande giostra.
Ancora gin. La mente si annebbia, e lungo il corpo tumefatto si schiude lo strazio dell’ignavia. Non sopporto questo dolore. E non sopporto questo brano. Bello senza dubbio ma troppo celebrato. Non è più mio, mi sento tradito quando respira sulla bocca di tutti e perde l’intimità dell’abbraccio che solo io credevo di potergli dare. I pedali vanno su e giù, come sempre, in una consueta danza con le mie mani. Nessuno mi guarda, gli occhi lacrimosi e arrossati dal fumo e dai vapori degli alcolici mi attraversano alla ricerca di una ballerina o, incuriositi, indagano sulle risate grossolane che riecheggiano aspre dietro le quinte. E il bicchiere è vuoto. Con un gesto repentino verso qualche altra goccia di gin nel breve assolo del sassofonista. Butto tutto giù in un solo respiro. Un lungo, desiderato, aspro respiro. Caduto lì, dove inconsapevole termina il mio sentire.
Finalmente il cameriere fa un cenno verso il batterista. È il segnale, ancora un pezzo e tutto finirà, tornerò nella mia topaia e su quel lurido letto sommerso dalle bottiglie vuote, attendendo l’arrivo di un’altra interminabile serata da perdente. Ruoto lo sgabello verso l’entrata del locale sperando di evitare l’ennesimo affronto alla densità acustica di Generique di Miles Davis, infastidito da sterili tentativi di contraffazione. Quando improvvisamente entra lei. Indefinita e forse eternamente sospesa. A passo sicuro si dirige verso il palco e con un gesto ossequioso restituisce dignità alla mia esistenza, alla mia musica e al mio volto deturpato dalla cirrosi. Un solo sguardo, forse casualmente caduto su di me, mi libera dalla cedevole incompiutezza di un incontro casuale. Non so se domani tornerà, e in verità non so neanche se si sia mai accorta di me. Ma non importa. “Suoniamo l’ultima” dico ai miei compagni di sventura. E per la prima volta loro mi guardano, comprendono e mi accompagnano lungo quel breve sogno. Suoniamo come mai prima volteggiando su ogni nota dello spartito. Sopra noi si alza una melodia calda e sensuale travolgendoci in una brezza estatica che ci porta ai confini del mondo, dove dimenticare le nostre paure e i nostri insuccessi. Lungo il percorso dei ricordi cancello ogni torto subito e chiedo perdono per ogni offesa arrecata, ritrovando, sulle ultime note, il piacere dell’imprudenza.
La musica è finita adesso, riapro gli occhi e lei non c’è più, fuggita con qualche squallido omuncolo calvo. Chissà se tornerà ancora. “Ti ringrazio” dico sommessamente, e brindo a lei sorseggiando lentamente un bicchiere di acqua naturale.