di Pierfranco Bruni
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La voce e le parole nella Grande Guerra portano i segni di Ungaretti, Papini, Malaparte, Corrado Alvaro e tanti altri scrittori che hanno segnato il Novecento italiano. La Calabria di Alvaro ha il “grigioverde” tra i linguaggi. La Grande Guerra e, appunto, Corrado Alvaro. Tra esistenza e letteratura. Un intrecciare il linguaggio alla vita. La stagione del verseggiare in Corrado Alvaro (San Luca, Reggio Calabria, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956) finì presto. Ma già da questo primo impatto con la parola il suo mondo esistenziale e letterario comincia a delinearsi.
È un’esperienza molto utile e significativa anche se non si raggiungeranno elevati risultati lirici. Il lirismo tout court è difficile riscontrarlo. Pochi sono quei passaggi che ci fanno gustare la sensibilità del ritmo, la sicurezza dei toni, l’assonanza delle parole.Eppure siamo in una stagione che darà importanti frutti. Siamo nell’anticamera di quella poesia che, attraverso le esperienze del primo ventennio del secolo, porterà all’ Ermetismo. Alvaro sembra lontano da quel movimento esplosivo che caratterizzerà i primi anni del Novecento. Èlontano da Thovez che pubblica nel 1901 Il poema dell’adolescenza. Èlontano, molto lontano, da Marinetti, da Corazzini, da Palazzeschi, da Onofni, da Sbarbaro, da Cardarelli, da Ungaretti che pubblica Il porto sepolto nel 1916 e da Saba le cui Poesie appartengono al 1911. Alcune sue prime poesie risalgono appunto al 1911. Mentre la raccolta che farà parlare di un Alvaro poeta è del 1917 dal titolo Poesie grigioverdi.Verranno ristampate nella raccolta del 1942 dal titolo Il viaggio. Il rapporto solitudine-mito è già delineato in queste poesie. Costituiscono la radice dalla quale nasceranno i suoi romanzi, i suoi diari, i suoi commenti e la sua profonda meditazione sul senso, appunto, del viaggio o meglio dell’assenza. Con il binomio paese-infanzia e maturità-ritorno si sviluppa una dimensione che è quella del ricercare nei significati dell’Essere-Tempo i segni della vita. Poesie grigioverdi sono una testimonianza che raccoglie esperienze diverse. C’è il suo rapporto con la guerra, ma si sente particolarmente un’angoscia velata, un dolore mascherato dal voler dire o dal voler essere al di là della storia. La guerra è il destino di una generazione, ma la perdita del paese-infanzia con il dolore della guerra diviene sacrificio-tragedia. Su questi poli si muove la sua poesia. Sono gli stessi che troveremo nel suo romanzo del 1926 L’uomo nel labirinto. Così si ascolta: “Tra i miei sessanta soldati /ce n’è uno che è un povero figliolo /alto e bello; ma solo ha i capelli colore di granturco. /In piazza d’armi, quando ci si andava,/que’ capelli splendevano lontano. /Ora capisco perché la mia mano /a toccare il fucile, tremava”. Ancora: “La tua tromba, soldato di trent’anni, /piacerebbe per gioco al tuo bambino. Tu la lucidi tanto ogni mattina /che splende e sembra fatta d’oro fino./Tu ti dondoli tanto in qua e in là /quasi spavaldo delle tue armonie. /Canzoni, canti, intese per le vie /tanto che s’indovinan le parole. /Levan più alto il viso anche i soldati /perché non pesa più tanto il fardello. /Oh canzoni d’un tempo accompagnate/dai campani, dal carro, dal martello!”. Vi è una parola che non bada all’eleganza ma non ha schematizzazioni o impostazioni strutturali e semantiche particolari. Vi è sì la sua esperienza di soldato ma fra le pieghe della parola e dei versi si notano delle ve- nature nostalgiche che condensano il senso delle cose. La partenza e la rievocazione della sua storia: storia di confidenza con il paese, lo portano a cantare una solitudine dura, dura come le montagne della sua terra. Si ascolta: “Noi siamo fatti di pietra. /Soffriamo le passioni /di centinaia d’anni”.
Ci sembra intravedere un dolore antico, quasi tinto di sacralità. Ma in Alvaro il ritorno alle origini, l’antico ritorno di Sebastiano Babe in altri casi, ha un profilo certamente di natura eliadiana. La stessa nostalgia, la quale si lega alla solitudine non può reggere senza dover ricorrere ai segni di una ritualità arcaica. La sofferenza che proviene da lontano rende duri come la pietra. Immediatamente, dopo una lezione magica giocata su una tensione esistenziale fra Memoria e Tempo, arriva un’altra voce: “L’uomo sarà persona? /Sarà numero ancora?”. “La Grande Guerra tra i sentieri delle emozioni e la voce delle parole. 1914-1918”: una mostra allestita alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, diretta da Elvira Graziani, pone all’attenzione, nelle sue diverse sezioni, un percorso bibliografico di estremo interessa e di una marcata scientificità. Nella mostra si parla anche di Alvaro. Qui compare l’autocoscienza problematica)) di cui parla Gaetano Cingari. Ma nello stesso momento si avverte la radice antica di Alvaro. Mario La Cava scrive che il poeta più vicino ad Alvaro è addirittura Tommaso Campanella. È vero, comunque, che vi sono, in queste prime poesie degli «approcci realistici e memoriali» (L. Reina). Solo che quelli memoriali superano di gran lunga quelli realistici. Giuseppe De Robertis individua in queste poesie un “accennar dispersivo” attraverso una serie di «immagini distanti». Mentre Riccardo Scrivano parla «di un sofferto incontro col mondo e con la natura, sentita come rifugio e consolazione, dentro una linea dannunziana che si volgeva però a significazioni più interne, con meno segretezza e più umanità». Ècerto che vi è un dolore vissuto «sempre in prima persona» (R. Scrivano) che coinvolge però attraverso una presa di coscienza sui valori e sull’identità del tempo. Su questa trepidazione si fonda la sua ricerca al “ritorno al passato” (M. Pomilio). Le poesie de Il viaggio camminano a passi lenti e felpati sulla ragnatela del tempo-memoria. Un tempo - memoria che non si storicizza, che non diventa lezione realistica ma conserva tutto il suo fascino umano, su un itinerario solitudine-mito. Ascoltiamo quella che viene definita la sua ultima poesia: “Sono tornato al mio paese /e ho ritrovato tutto come prima./Soltanto non c’era mio padre /né quelli del mondo di prima...”.
L’immutabilità delle cose si contrappone alla mutabilità degli esseri. Sembra che non sia mutato nulla, ma “l’età trascorre”. E la giovinezza,pur attraverso un filo di inganni, si accosta alla «morte». L’assenza del padre, nella poesia appena citata, è già un sintomo di come le cose cambiano. Il tempo, è vero, è avvolto da un alone di mistero ma si aggrappa sempre alla vita degli uomini trasformandola. Non c’è comunque una visione drammatica delle cose. Nella «morte» si avverte che tutto è “sorridente”. L’immagine che qui cogliamo è al cospetto di una ironica tragedia. Ecco l’ironica tragedia. Gli uomini rimangono «dietro le speranze deluse». È una poesia fatta di partenze, molto incisiva. Anche qui vi è una contrapposizione. “Io partivo non come un tempo” dice Alvaro. Quindi è subentrato il mutamento che ritorna attraverso il ricordo. Poi avverte subito: “Stavano ferme le montagne”. Quindi nuovamente gli esseri mutati si scontrano con la immutabilità delle cose. È un itinerario, questo, che si ripete continuamente. Ci spinge in modo abbastanza coerente alle ultime pagine de L’uomo nel labirinto. Qui è Sebastiano Babe che ritorna in paese “all’alba”. Qui lo scenario è lo stesso di quello dipinto nella poesia. Sembra che la poesia sia calata nel romanzo. L’eroismo e la Patria in Alvaro sono riferimento: “Andate a gridare a un soldato /baciandolo: Tu sei un eroe! /Ei non conosce un’opera perfetta /che non sia ‘1 solco del bove. /Ei non conosce un valore /che non sia quello di vegliar la notte /presso un suo tino d’uva che borboglia”. Le poesie della “guerra”, della Grande Guerra, restano, comunque, un’esperienza umana e letteraria di primaria importanza. Non solo per Alvaro, ma anche per quella letteratura, e poesia in particolare, che diventa riferimento per intere generazioni che hanno costruito la storia di una identità nazionale.