Devo dire che non c’è poi molto gusto nell’affrontare oggi un dibattito con un ateo avente come fulcro della questione l’esistenza di Dio. Questo non perché l’argomento sia passato di moda: non è proprio uno di quei temi che “vanno di moda”: è piuttosto di quelle domande ultime sulle quali la filosofia si è a lungo interrogata.
Ma questa ultima generazione di atei (neoatei li chiameremo) è spesso priva degli strumenti filosofici, teologici, culturali, di valore, con i quali affrontare un tema così delicato, thema dalla portata vasta, giacché si scontra con le radici antropologiche di ciascuno, nonché in grado di toccare diversi gradi di sensibilità.
Quando si affrontano “domande ultime”, quando si entra nell’ambito escatologico, lo si deve sempre fare in punta di piedi, con umiltà, ma anche con curiosità ed apertura mentale.
Questo senso della curiosità viene però meno se dall’altra parte del tavolo c’è un interlocutore che ha eretto feudi mentali ai quali non è possibile accedere con gli strumenti della logica e del dialogo.
Dal momento che il dialogo presuppone uno scambio di opinioni, un confronto tra misure (ed anche una misura del confronto che sia la più ampia possibile), i protagonisti della comunicazione devono essere leali prima che tra loro con se stessi.
Se il fine dello scambio di idee non è un incontro, ma uno scontro, allora è inevitabile che ad uscirne perdenti saranno tutti i punti di vista in gioco.
Per entrare nel merito della questione, il neo ateo è, per me, abbastanza rude e rozzo nella trattazione di una tematica così forte, così complessa, con i suoi annessi e connessi.
Insomma non si può contrapporre un muro basato su prove scientifiche, anzi su non-prove. Mentre nel processo il fatto non sussiste per mancanza di prove, qui per assurdo sussiste l’inesistenza di dio per lo stesso motivo.
Ma dall’assenza non si può dedurre un’altra assenza, da una negazione non può necessariamente derivare un’altra negazione. Quando gli strumenti della ragione diventano le corte spade di un combattimento senza vincitori né vinti, allora non è con la ragione che stiamo supponendo teorie, ma con l’assurdo, con l’assenza di ragione. E come può (di nuovo) l’assenza portare a un ragionamento? Dal vuoto non può derivare il pieno. Mi si dirà che se riempio un bicchiere vuoto, allora esso diventa pieno. In verità non è quel vuoto che ha generato il pieno. Il pieno, l’esistente, deriva da altro esistente oppure si può ammettere che derivi da sé, che esista da sempre e per sempre. Il vuoto è vuoto, è horror vacui, è…mancanza di pieno, è teoria della relatività pronta a cedere.
Vecchio assioma logico quello per il quale chiaramente l’ateo non sarebbe altro che un dipendente dall’idea di dio. Per negare l’esistenza di un qualcosa se ne deve in qualche modo comprovare l’esistenza, inquadrare il soggetto in un ragionamento logico che gli dia un nome. E da quando assegniamo nomi a caso?
Se si ammette che il nome è la cosa, e la cosa è il nome, allora è inscindibile il rapporto tra esistente ed idea dell’esistente. Ma qui ci stiamo incamminando su altre strade. Abbiamo già aperto la breccia a un dibattito. Un neoateo si sarebbe tappato le orecchie e avrebbe urlato che due più due fa quattro, ignaro (volutamente?) che nessuno parlava di addizioni, ma di un’equazione, di un’incognita (mi si consenta di giocare con qualche termine matematico) più complessa.
Non da ultimo l’atteggiamento è sempre criticabile e non approvabile quando è segno di una clausura mentale che non vede al di là della siepe che il guardo esclude.
L’infinito è per tutti, ma pochi osano avventurarvisi.