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Nicola Lagioia – “Riportando tutto a casa”- Lettura

Creato il 16 ottobre 2010 da Fabry2010

Riporto il conciso risvolto di copertina di questo libro per soddisfare i lettori curiosi delle trame. «La città di Bari. Il momento gli anni Ottanta. Il denaro corre veloce per le vene del Paese. I tre adolescenti che si aggirano per le strade di questo libro hanno in corpo una sana rabbia, avvelenata dal benessere e dalla nuova smania dei padri. Si azzuffano e si attraggono come gatti selvatici, facendo di ogni cosa – la musica, le ragazze, le giornate – un contorto esercizio di combattimento. Ma negli angoli dei quartieri periferici li aspetta il lato in ombra di quel tempo che luccica: qualcosa che li costringerà a mettere in discussione le loro famiglie, i loro sentimenti, e perfino se stessi. Ci metteranno vent’anni per venirne a capo»

La storia in una narrazione, come si sa, lungi dall’essere una benevola concessione al lettore è il momento in cui un significato tocca terra. Qual è il significato segreto di questo libro? A me è sembrato essenzialmente quello  – di non poco momento nella vita di ogni uomo–  in cui, nelle rapide della prima giovinezza, s’avvista il senso (che spesso è un non senso) del mondo. Ciò accade al protagonista- narratore*  del romanzo  e ai suoi  amici e compagni di socializzazione Giuseppe e Vincenzo, in una città, Bari, che mancava alle patrie lettere con tale intensità di rievocazione e tale forza di rivelazione.  Quando l’appercezione del mondo  si esperisce in quell’età – e diciamolo con decisione avviene solo in quell’età con tale forza e dolore – il senso del mondo non può che essere intravisto come cadendo dalla tromba delle scale. Tanto più se aggiungi al vortice naturale quello artificiale delle droghe.

Ma fino ad ora mi accorgo di aver detto pochissimo di questa narrazione (il termine “romanzo”, oggi evidentemente  temuto  quanto adito fino a pochi lustri fa, è sparito anche dalle copertine dei libri di narrativa) e perché mi è piaciuta così tanto da consigliarla ai miei amici. L’ho detto molte volte in queste note di lettura sul web ma giova ricordarlo: per scrivere qualcosa  che si stacchi dalla prosa a perdere che ci assedia, occorre innanzi tutto avere “senso del reale” ed “espressione personale”, perché il mistero della letteratura è tutto qui: una sezione del reale attraversata da un temperamento, da uno sguardo che si fa scrittura e stile, atteso che lo stile è un modo di vedere le cose. Nicola Lagioia dimostra in questo libro di possedere  sguardo e temperamento di notevole livello. A me è piaciuta innanzi tutto  l’arzigogolata  forza delle immagini, la qualità metaforica della scrittura che è l’azzardo – proprio ad ogni scrittura ambiziosa – di catturare, imbrigliare ed esprimere il disordine del mondo con un semplice rezzaglio di parole.

Per dire meglio cosa intendo con “qualità metaforica” metto in connessione il mio tentativo di spiegazione con  un’altra lettura  che mi ha accompagnato nei giorni estivi appena trascorsi. Leggevo ne L’arte del romanzo di Milan Kundera (p.193) a proposito delle metafore. « Non le amo se sono un ornamento. E non penso solo a cliché tipo “il tappeto verde di un prato”, ma anche, per esempio, a Rilke: “Il riso stillava dalla loro bocca come da ferita purulenta”. Oppure: “Già la sua preghiera si sfoglia e spunta dalla sua bocca come un arboscello morto” (I quaderni di Malte Lauridis Brigge). La metafora mi pare invece insostituibile come mezzo per affermare, in una rivelazione improvvisa l’inafferrabile essenza delle cose, delle situazioni, dei personaggi». Una metafora è  il barbaglio di una immagine “concettuale” (ricordo che il termine “barocco” trae origine da una figura logica, da un tipo di sillogismo) che ci dà con esattezza analogica una situazione psicologica o narrativa. È lo spirito di finezza,  se lo sviluppo della trama è lo spirito di geometria della narrazione.

Basta riaprire il libro di Lagioia a caso per sincerarsi di ciò che sto dicendo. In alcuni passi è così ardito il voltaggio stilistico da sembrare di tangere l’Ingegnere Gadda, addirittura: «Lui  e la sua azienda, stretti in un vincolo energetico che funzionava secondo la regola dei vasi comunicanti (lui si ricaricava, Lei marciava a meraviglia lungo tutte le nervature del tessuto commerciale, tornando a noi nei geroglifici impazziti dei c/c), come se proprio quello stato di rimbambito dormiveglia, drogato dal Valium e dai sali di litio, gli consentisse di entrare in contatto con la parte profonda e misteriosa dei suoi affari: la culla ancora vuota di una Natività dentro la quale l’imperscrutabile pi greco del far soldi e la persona fisica di mio padre si sarebbero fusi in un unico individuo» (p.108). Certo, in alcuni passi gli spasmi espressivi dilatano i tempi narrativi e ostacolano la fluidità dell’ affabulazione, il colore delle frasi spesso fa perdere di vista il disegno del racconto;  per me tutto ciò non conta o conta poco,  però può aver destato qualche perplessità in critici esimi come Cordelli che invita Lagioia a “concludere”. «Se Lagioia ha un limite è di accumulare, di non tagliare, di non rifinire» (Corriere 7 agosto 2010).  Ma, dico, meglio esperire qualche fallimento locale che rinunciare alla scommessa totale della prosa ad alta tensione espressiva. In Lagioia avviene dopotutto  il miracolo di Brancati (scrittore che adoro), miracolo che aveva sottolineato già  Sandro De Feo (se la memoria non mi inganna). Ossia che nella sua prosa le metafore si sviluppano come una linea dritta dentro un ghirigoro barocco. Qui possiamo aggiungere che l’immagine viene espulsa dopo una centrifuga di parole. E certo non solo a Cordelli, ma anche a noi, che ci picchiamo di avere il fiuto dei critici (della domenica), ci viene a mancare talora  il fiato dei lettori fortissimi che un romanzo ambizioso come questo esige; abituati ai tempi brevi e collassati della comunicazione veloce,  spesso non abbiamo la pazienza di attendere l’atterraggio di una frase, la chiusura di un pensiero labirintico sì, ma che alla rilettura si rivela per quel che è: un pensiero nitido e soprattutto esatto.

Ma se quanto finora detto tocca il livello micro narrativo,  a livello macro, signori, ci troviamo di fronte a una narrazione di  ”rivelazione” finalmente. Oggi che le librerie sono inondate da narrazioni  di “risoluzione”  ( i noir, i gialli, liberateci dai noir, dai gialli!) palpeggiare una narrazione di rivelazione come questa – che rinuncia per scelta originaria, pre-redazionale ossia, alla dopotutto facile architettura narrativa dello scioglimento degli enigmi – significa godere dell’attrattiva di una prosa senza agganci esterni e  limitarsi a scoprire semplicemente (semplicemente?, hai detto paglia) quale piega prende il flusso delle parole scritte, quali enigmi semantici scioglie, quali mondi ci lascia intravedere il luccichio di una metafora, quali idee di mondo ci sveli il magistrale giro di una frase. Se si stratta di una scrittura come quella di Lagioia, state certi di portare a casa un nuovo sguardo, un modo arricchito di vedere le cose: il suo, che per la magia della mimesi letteraria diventa anche il nostro.

La strategia (e l’astuzia) redazionale del libro che abbiamo tra le mani consiste nell’interpolare alla storia (quella che ci dà ad esempio il vivido ritratto di due genitori del Sud  o gli interni familiari dei  deuteragonisti Giuseppe e Vincenzo) alcuni lacerti della Storia; la piccola vicenda barese  che con brevi e stuzzicanti allusioni  si interseca o tange l’histoire événementielle dei Reagan, Tatcher, Gorbaciov. E allo stesso tempo di dirci  quali blob televisivi fuoriescono dai televisori dell’Italia di provincia degli anni ’80, e regalarci una saggio stupefacente sulla fenomenologia di Drive In, della sua irruzione nella provincia italiana più innocente (fino ad allora) e più irredenta (ancora oggi). Questo è infatti uno dei punti di attrazione del libro. Coinvolgente è anche il leitmotiv di punteggiare la vicenda narrata con il “sonoro” e il “visivo” che ci ha accompagnato lungo il corso degli anni ’80: spot e programmi televisivi, testi di canzoni e motivetti anche insulsi.

Infine, uno dei vantaggi della prosa di “rivelazione” è proprio quello di svelarci un mondo altrimenti ignoto e precluso alla conoscenza dei più. Ciò di cui non si parla quasi non esiste, ed ecco che quando la realtà si fa racconto veniamo a sapere di cose straordinarie, che però erano e sono sotto gli occhi di tutti: la connessione ad esempio tra la malavita e la borghesia cittadina del nostro Sud ( il padre di Vincenzo e i fratelli Terlizzi qui, X, Y e il clan Santapaola a Catania?).

Talché, alla fine, viene asseverata la massima che la letteratura, la buona letteratura, oltre che intrattenimento, consolazione e distrazione, è soprattutto una forma di conoscenza. E per capire non solo i  nostri anni ’80 ma anche il senso dei giorni nostri, se è vero come è vero che in quel decennio essi trovano scaturigine, non basterà leggere un libro di storia come quelli di Ginsborg che degli stessi anni tratta, ma tornare a riaprire d’impeto questo Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia.

Alfio Squillaci

*Ma i narratologi superciliosi e a me simpaticissimi direbbero che la voce narrante è sia omodiegetica- extradiegetica che  eterodiegetica-intradiegetica: per sciogliere questo enigma vi rimando a Gérard Genette Figure III.



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