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Non c’è niente di più triste che abituarsi al brutto

Creato il 29 agosto 2013 da Laotze @FrancoTorre1953

La pre-apertura della Mostra cinematografica di Venezia di quest’anno è stata dedicata alla proiezione dell’edizione restaurata di uno dei più bei film della storia del cinema italiano, ”Le mani sulla città”, uscito nel 1963.

In quel film Francesco Rosi denunciava la devastazione di Napoli prodotta dalla speculazione edilizia e faceva vedere come questa fosse il prodotto di una realtà marcia, il risultato di un profondo intreccio tra la “famiglia” dei politici e quella dei costruttori.

Veniva mostrato come tutto nascesse all’interno del consiglio comunale, dove venivano messi a punto piani regolatori piegati agli interessi degli speculatori.

Proprio in quegli anni a Palermo, l’altra “capitale” dell’Italia meridionale, era in pieno svolgimento quello che poi sarebbe passato alla storia come il “sacco di Palermo”.

Quell’enorme operazione delittuosa, che ha sfregiato per sempre la città, ha prodotto un risultato doppiamente negativo: non solo ha privato i palermitani della vista del bello ma, con quegli orribili palazzoni che hanno preso il posto di antichi giardini, li ha abituati al brutto.

Camminando oggi per le strade di  Palermo e avendo cura, mentre lo si fa, di non limitarsi a guardare dove si mettono i piedi, ma di volgere in alto lo sguardo, è possibile, attraverso piccoli ma significativi dettagli, cogliere i segnali del degrado subito dalla città a partire dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso.

Invito i miei lettori palermitani ad osservare, per esempio, lo stato dei balconi dei palazzoni che si trovano nella zona situata a nord di via Empedocle Restivo, verso Sferracavallo (viale Strasburgo, via dei Nebrodi, via Monte San Calogero, via Monti Iblei, ecc.).

È uno spettacolo raccapricciante, penoso, sembra di vedere il risultato di un bombardamento.

Camminare lungo le strade di questa zona di Palermo è un po’ come camminare lungo i corridoi di un museo, un museo (a cielo aperto) molto particolare, nel quale sono esposte le “opere” di una “scuola di pensiero”.

Simbolo di questa “scuola di pensiero” è l’abbattimento del Villino Deliella, costruzione che sorgeva in piazza Francesco Crispi (ci troviamo nella zona che i palermitani chiamano “le croci”).

Quell’atto di inaudita violenza, che eliminò dalla città una delle opere superstiti dell’architetto Ernesto Basile, ebbe luogo tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1959; sono proprio quelli gli anni che hanno segnato la svolta, svolta dalla quale Palermo non si è più ripresa.

Tra i tanti danni prodotti da quella “scuola di pensiero”, quello che considero il più grave non è tanto quello quantitativo (l’abnorme numero di palazzoni costruiti) quanto quello qualitativo (come sono stati costruiti).

A Palermo, a partire dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, ha preso il sopravvento la speculazione più becera, più violenta (quella che lucra sulla qualità dei materiali, quella che ricorre, sfruttandoli, ad esecutori improvvisati, quella alla quale non importa un bel nulla di costruire a regola d’arte, di guardare alla bellezza di ciò che si costruisce).

La città ha perso, assieme alle sue ville, l’abitudine alle cose ben fatte, all’armonia, alla bellezza ed ha cominciato ad abituarsi alle cose senza qualità, ad essere circondata dal brutto, ad essere più povera.

Molti, nelle cui tasche, grazie alla speculazione edilizia, è improvvisamente entrata una montagna di danaro (quelli, per esempio, che possedevano terreni nella zona dove di più si è materializzato il “sacco di Palermo”) si sono illusi, e continuano a illudersi, di avere fatto il salto, di essere “cresciuti”, anche socialmente.

Quello di cui non ci si rende più conto è che crescere è una cosa ben diversa, che non ci si può improvvisare, in nessun settore (dall’edilizia alla moda, dalla scrittura alla ristorazione).

Si cresce solo studiando, leggendo, approfondendo gli argomenti, confrontandosi con gli altri, viaggiando.

Natura non facit saltus, e invece molti, in pochissimi anni, sono passati dalla zappa al tablet.



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