Magazine Diario personale

«Non c’è pace per gli empi», dice il mio Dio (Isaia 57:21)

Da Fabry2010

«Non c’è pace per gli empi», dice il mio Dio  (Isaia 57:21)
Guido Reni, Susanna e i vecchioni (Auckland, City Art Gallery)

Arrivammo appena in tempo su in paese, stipando all’inverosimile due SUV e una Golf, quattordici tornanti in salita fatti a velocità di ciclista stanco, che se no gli ammortizzatori toccano il fondo corsa e le gomme grattano il parafango.

Arrivammo appena appena in tempo per quello che ci aspettava: la cena in piazza preparata per l’evento dall’Agenzia turistica, le premiazioni, i discorsi, e il clou, la presentazione del torneo triangolare a inaugurare il nuovo campo, e delle due squadre ospiti. «Ai massimi livelli europei!», avrebbe detto il sindaco al microfono, e giù applausi su di noi, schierati in piedi e in divisa sociale e le facce ebeti dietro bottiglie svuotate e avanzi di dessert, magari sotto i fari della TV locale.

Una trasferta per noi, a fine stagione, un’aria e un posto di vacanze. La società pagava il forfettario, ma vuoi mettere? Alcuni, i più fighi, vennero in macchina, ognuno per conto suo. Costa di più, ma chissenefrega, non si sa mai che becchi, dicevano, dandosi di gomito. Siamo in trasferta, no? Gli altri, treno e pullman, attenti a stare dentro il forfettario. Ma tra la stazione in valle e il paese in quota, il pullman quel giorno non faceva servizio. Giro di telefonate, imprecazioni, ed eccoci tutti dentro tre auto. Io avrei aspettato volentieri Bruno, il nostro fotografo, ma nessuno l’aveva ancora visto.

Tenevamo le sacche sulle ginocchia, e nell’abitacolo delle vetture non c’era il più piccolo spazio vuoto, quasi non si respirava. Riuscimmo a infilarci in sei, più sacche, nella Golf di quello arrivato da poco alla squadra, un ragazzo che studiava medicina e che gironzolava parecchio attorno ai dirigenti. Era uno di quei tipi sempre allegri… no, non è allegria, era solo qualcuno che dava pacche sulle spalle, faceva battute, rideva e parlava a voce alta. Mica ci lego tanto, con gente così. Così me ne stavo immobile sul sedile posteriore, pressato da tutti i lati tranne che sul capo, come una sardina inscatolata, altrettanto zitto, altrettanto vuoto di pensieri, vigile solo per curve e buche sulla carreggiata. Il tipo al volante parlava con il vicino ed era impossibile escludere la voce dal mio confinato campo uditivo. Parlava di soldi:

«Ho già comprato tutto, se aspetto babbo Natale… aiuto un amico rappresentante, lavora con le case farmaceutiche, i soldi girano. I miei sono insegnanti, poveretti… no, io mai! Per l’amor del cielo, non potrei mai essere un insegnante! ’Sti morti di fame!»

Fui costretto per alcuni tornanti ad ascoltare commenti sul costo della vita, anzi il costo della sua vita, poi alcuni dettagli della sua serata alla festa di un’amica. Infine il tipo armeggiò con la mano destra verso il cassetto sulla plancia, girando il volante un po’ con la mano sinistra e un po’ con le ginocchia, o così mi sembrò di vedere da una sottile fessura nel muro delle sacche. Lo sentii mormorare all’occupante del sedile accanto, senza abbassare di tanto la voce:

«Si era appena addormentata… au naturel… hai visto che roba?»

Dalla fessura scorsi un angolo di una fotografia che passava di mano, una figura femminile stesa un po’ di fianco e un po’ supina, una figura snella, abbronzata, nuda. L’altro guardone approvava fischiando. Distolsi lo sguardo dall’immagine e mi ritirai dietro il muro delle borse, molto attento a non dare cenni di vita fino a destinazione.

Ora, forse io sono per carattere un intransigente, un moralista, un caso senza speranza. Al punto che il veder esposto il corpo femminile, anzi, il corpo umano, mi provoca fastidio, se non vedo una ragione plausibile di farlo – e non la vedo quasi mai. Abbasso gli occhi, volto la testa. Ho scritto fastidio? C’è qualcosa d’altro. È imbarazzo. Non per me. Per chi viene esposto e per chi guarda, perché è palese la manipolazione diretta dal corpo esibito fino all’occhio dell’osservatore, che a sua volta non sa, come dovrebbe, che l’intero sostrato dei suoi istinti e desideri muove e si agita allo stimolo visivo. Nessuno conosce più la potenza del corpo svelato, neppure gli operatori del mondo mediatico che di esso ingrassano. Apprezzo le burle, ho fatto le mie stupidaggini da giovane, tento di comprendere l’espressione artistica, che non può prescindere dal corpo, ma quello che si esibisce in giro ha cessato di essere materia di scherzo, di alzata di spalle, di occhi rivolti al cielo. È ora ragione di rabbia. E se mi capita di passare davanti a un televisore acceso, io che non ne possiedo uno, o di scorgere un certo avviso pubblicitario sulle strade di periferia, ho il sospetto che l’unico denominatore comune di ciò che viene mostrato sia l’umiliazione del corpo umano, che oggi avviene con la violenza e l’insulsaggine, domani avverrà con la pornografia diffusa e accolta come un inevitabile arredo urbano. Come una comoda e spiccia pedagogia. Si somministra così, goccia a goccia, il distillato feroce che fa gli uomini come bestie, illimitatamente maneggiabili, et gutta cavat lapidem, figurarsi le poltiglie dei cervelli. E come si può entrare nella testa di chi in certi momenti ruba immagini frodando e si vanta poi pure di averlo fatto? Sì, sono un caso senza speranza, ma io so che quello studente di medicina – che concluda i corsi non è sicuro e non glielo auguro – sarà un pessimo medico e i suoi pazienti ci lasceranno la pelle sotto le sue mani.

In verità, non è moralismo. È solo acrimonia. A vedere brutture non si diviene migliori. Nell’uscire dalla Golf accessoriata del fotografatore da camera da letto, ferma sul lato a monte della strada, non feci veramente attenzione, e la portiera destra aprendosi andò a sbattere contro un muretto di protezione. Anzi, fui proprio incurante, potevo scendere dall’altra parte, e poi le nostre borse sono molto voluminose, bisogna spalancare i portelli per farle passare. Forse usai troppa forza, sufficiente per lasciare un’ammaccatura pronunciata proprio sull’angolo della portiera corrispondente all’arco del passaruota, un punto molto visibile. È anche possibile, anche se a questo punto i particolari dell’accaduto diventano pura materia di congettura, che le botte siano state più di una. Che il proprietario se ne sia accorto?

«Sei venuto con una bella compagnia! È stato divertente?», la voce di Bruno alle mie spalle. Impossibile che non se ne fosse accorto lui. Feci finta di nulla, guardai assorto la linea lattiginosa di inversione sospesa mille metri sopra l’orizzonte della valle come se meditassi una fatidica revisione dell’eterno ritorno degli uguali, ed evitai i suoi occhi. Che figura! Dovevo fingere di dire qualcosa.

«Eh, durano poco le macchine su queste strade di montagna…». Pezzo d’idiota che sono! Dovevo parlare d’altro! Lui annuì e non fece caso all’incidente. Ci mettemmo in cammino sulla salita verso la trattoria scambiando i soliti discorsi. Poi lui mi diede una pacca sulla spalla, un po’ come avrebbe fatto con un complice di bravate lo studente di medicina, che in quello stesso istante esaminava bestemmiando la portiera ammaccata. O come avrebbe fatto un sacerdote in una frettolosa assoluzione.

«Bruno, la vedi bene la squadra?». Bruno può prevedere il rendimento di ognuno dandogli giusto un’occhiata, chiedendogli come va, mezz’ora prima della gara. Bruno sa sempre azzeccare il risultato. O quasi sempre, almeno.

«Vedrai i nostri giovani leoni. Sono belli carichi. Lo sai – no? – ci sono gli osservatori federali».

«Ah, gli osservatori. Siamo venuti per mettere su una vetrina, ce l’hanno detto, farli giocare. Bruno, credimi, non è come una passeggiata. A me non piace. Il nostro leone non sa fare neanche uno stop decente».

«Che c’entra? Non metterla sul piano personale. Hai avuto le tue belle soddisfazioni. Adesso è il turno di altri. È una cosa normale. Prendersela con una macchina! Non ti pare puerile? Non puoi startene tranquillo in pace?»

Si fermò, cercò caparbiamente di guardarmi negli occhi. Mi arrestai di botto anch’io. Fremevo.

«E pagare i danni?», aggiunse.

«No, guarda, non è quello… Ah, lascia stare. Meglio che io non dica niente. Se no, prenderesti per maleducazione l’unica cosa che adesso mi va di dirti!»

«Uuuuhh… e magari stasera ti dispiacerebbe, aver detto quell’unica cosa. Va’ là, va’ là, non avercela col mondo, calmati, sciogliti, addolcisciti, mettiti il cuore un pace! Si può imparare, a qualsiasi età».

E mentre Bruno parlava, lui che sapeva parlare con tutti, e che con me non se l’era mai presa, le sue parole avevano un suono strano, come di un lontano ricordo, come di una parte di me a lungo dimenticata. «Il cuore in pace?» sussurrai, e mi assalì, assurda in quel luogo, la nostalgia di un mare calmo, e mi ritrassi da lui, per non tradire quello che mi saliva in gola. Era la memoria del pianto, e del sale che brucia.



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