Aveva difeso Asia Bibi, la pachistana cristiana incarcerata in base alla legge contro la blasfemia per aver insultato Maometto, chiedendone «persino» la grazia. Si era poi speso politicamente affinché questa legge sulla blasfemia, che secondo le organizzazioni internazionali è usata spesso come mezzo di repressione delle minoranze religiose, fosse emendata o addirittura cancellata dall'ordinamento giuridico pachistano. In occasione dell'assassinio del governatore Salmaan Taseer, assassinato da una guardia del corpo in quanto sostenitore, anche lui, dell'abolizione del reato di blasfemia, Bhatti era stato il primo a condannare il gesto.
In occasione dell'ultimo rimpasto di governo, malgrado le pressioni dei gruppi islamici, Bhatti aveva mantenuto il suo incarico alla direzione del dicastero per le minoranze religiose del suo Paese. Aveva accolto la riconferma con soddisfazione: «Ringrazio Dio per avermi dato questa opportunità di continuare la mia lotta per le minoranze oppresse del Pakistan».
Successivamente, però, era stato avvisato dell'esistenza di un complotto terroristico per assassinarlo, e si era lamentato del fatto che la sua scorta non era stata rafforzata. Malgrado ciò, non aveva cambiato idea:
Ho lottato per tanto tempo in favore della giustizia e dell'uguaglianza. Se cambiassi posizione ora, chi parlerebbe al mio posto? Sono cosciente di poter essere assassinato in ogni momento, ma voglio passare alla storia come un uomo coraggioso.
Shahbaz Bhatti è stato assassinato il 2 marzo da un commando armato, ad Islamabad.
Integralisti religiosi, forse legati ai talebani pachistani, l'hanno ucciso perché si era impegnato a cambiare una legge usata per perseguitare le minoranze religiose del suo Paese.
La figura di Bhatti è significativa, perché ha combattuto contro l'oppressione religiosa malgrado la sua vita fosse in pericolo. È importante che la sua morte sia un esempio eroico della difesa dei diritti degli esseri umani, in questo caso il diritto a professare la propria religione senza temere di essere perseguitati. Senza esempi come il suo, è difficile riuscire a immaginare un futuro migliore, senza divisioni dolorose, senza persecuzioni.
Il "problema" è che Bhatti era cristiano, un cristiano devoto, e che i cristiani stanno attribuendo alla sua morte un significato pericoloso: quello del martirio per la fede.
I vescovi pachistani hanno intenzione di chiedere al Vaticano di dichiarare Bhatti «martire per la fede», in quanto avrebbe dato esplicitamente la propria vita «per la fede cristallina in Gesù Cristo».
Non voglio negare o nascondere la fede di Bhatti, da lui professata in maniera chiara e inequivocabile. Voglio che sia chiaro che se Bhatti fosse proclamato «martire per la fede», il suo gesto ne risulterebbe svilito, non esaltato.
Se si dichiarasse pubblicamente che tutto ciò che Bhatti ha fatto per le minoranze cristiane del suo paese, fino al sacrificio della propria vita, l'abbia fatto per fede, vorrebbe dire che il suo agire era dettato meramente dalla difesa dei propri correligionari e della propria religione. Il suo sarebbe stato un agire coraggioso, come lui voleva che fosse considerato, ma rivolto a difendere la propria gente, il proprio interesse di cristiano.
È invece importante che il suo gesto passi alla storia come quello di un uomo che, coraggiosamente, ha lottato per la libertà religiosa e contro la persecuzione, indipendentemente dal fatto che gli oppressi e i perseguitati fossero della sua religione, di un'altra o di nessuna.
A ricoprire questo ruolo, i pachistani musulmani possono chiamare Taseer, musulmano ucciso da fondamentalisti per aver difeso i cristiani. Ora tocca ai pachistani cristiani decidere se vogliono un martire per la propria fede, o se preferiscono un uomo che ha lottato per i diritti di tutti gli esseri umani.