Esiste il rischio che Richard Yates diventi un altro dei miei autori preferiti. Continuo senza fretta la lettura del romanzo “Revolutionary Road”, e per adesso posso solo dire che mi piace. Chissà se anche alla fine mi piacerà ancora; un romanzo è uno strano aggeggio e finché non si arriva alla fine non sai cosa ti può riservare.
La sua prosa influenzò tra gli altri anche Raymond Carver, e questo mi spinge a osservarlo con un occhio di riguardo. Ci sarebbe da scrivere un libro su come si scoprono certi autori perché uno scrittore una volta, in un’intervista ha fatto il loro nome, vero? A volte è stato un ennesimo colpo di fulmine, altre volte no.
La frase del titolo di questo post è di Yates. Quando era in vita, le vendite delle sue opere non hanno mai superato le 12.000 copie. Se pensiamo che era statunitense, e il mercato al quale si rivolgeva era (è) il più importante al mondo, abbiamo un’idea di quanto sia bizzarra l’avventura della scrittura. Perché è di quello che si tratta: un’avventura. Si parte pieni di speranze per scoprire le fonti del fiume Nilo; e si finisce nella pancia di un coccodrillo. Imbarazzante, non è vero?
Di recente, si è innescato un dibattito sui critici (su certi critici), decretandone il ridimensionamento, o addirittura la fine. Non oso dire la mia perché non sono in grado.
Scrivo soltanto che sono stati i critici (alcuni), a impedire che Yates finisse nel dimenticatoio. Lo stesso per il buon Herman Melville: il suo “Moby Dick, o la balena bianca” lo apprezzarono solo questi signori di cui si sente sempre parlare male.
Torniamo all’affermazione di Yates.
Lo scrittore era consapevole di affrontare argomenti che non sarebbero stati molto popolari. Adesso, grazie al cinema, c’è stata una maggiore attenzione verso la sua opera, ma dubito che abbandonerà mai la nicchia dove si è stabilito.
Ci risiamo, vero? Non credo affatto che un autore sia felice di scrivere per pochi; anzi sono persuaso che se si impegnasse, riuscirebbe ad avere successo.
Però a un certo punto, occorre scegliere. Piacere al pubblico e snaturare il proprio talento; oppure coltivare il proprio talento, e accettare che ci conduca in territori poco abitati?
Perché c’è chi scrive in maniera popolare e affronta argomenti molto difficili, e riscuote successo. E chi affronta argomenti che non trovano il consenso del pubblico, oppure accadrà quando l’autore sarà trapassato. Non è affatto un’eventualità remota, anzi.
Se le persone leggessero le traversie di certi scrittori, la fame, la disperazione e la rabbia che la scrittura ha riservato loro, forse smetterebbero di pensare a questo mestiere in modo tanto poetico. Ci sono un mucchio di settori che garantiscono visibilità e successo con meno fatica, sul serio.
Lo so, c’è il self-publishing: adesso è tutto più semplice. Come no. Crederci non costa nulla vero?
Intanto continuo a leggere “Revolutionary Road”.