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Nulla d’interessante fuori dall’assorbente

Creato il 20 luglio 2010 da Fabry2010

Nulla d’interessante fuori dall’assorbente

C’erano due uomini seduti su due sdraio di fronte al mare. Uno era mio padre.
Aveva i capelli bianchissimi – nella luce del sole parevano cristalli – e un paio di para-lenti scuri che teneva abbassati a quarantacinque gradi sugli occhiali da vista.
Indossava zoccoli alti e vecchi, gli stessi che fin da bambino gli avevo visto mettere ogni domenica per venire in spiaggia, e un paio di calzoncini azzurri. Con una mano, continuava ad accarezzarsi il naso scarnificato dalla malattia e dal caldo.
“Quest’anno è arrivata molto più tardi” gli sentivo dire.
“E’ per via dei cambiamenti climatici.”
L’uomo di fianco a mio padre era suo cugino. Avevano la medesima età, erano cresciuti a poche strade di distanza, ma i suoi capelli erano leggermente meno bianchi e la postura pareva più arcuata.
Se ne stavano seduti lì da quasi un’ora, a guardare le figure di passaggio e ad asciugarsi la fronte dal sudore. Sembravano due statue, da tanto poco si muovevano.
“Ma quali cambiamenti” sentivo mio padre dire. “E’ come per la crisi. Tu la vedi questa crisi?”
La spiaggia era un carnaio di occhiali da sole e costumi da bagno. La sera prima non eravamo riusciti a trovare un tavolo libero in nessun ristorante. Era esplosa troppo tardi l’estate, e con troppa velocità, come una vescica di calore e febbre che vuole lasciarsi alle spalle tutto il resto.
Il cugino di mio padre si era messo a passarsi le dita sul retro del collo.
Mi ero avvicinato lentamente, con l’intenzione di sedermi accanto a loro. Poi avevo deciso di restarmene in disparte, a un paio di ombrelloni di distanza, in ascolto.
“Allora ci vogliamo andare o no?”
“Se andiamo, apre la bottiglia.”
“Se la apre, beviamo. Due bicchieri.”
Parlavano di un tizio che avevano cominciato a frequentare da non molto. Almeno mio padre. Suo cugino lo conosceva già da tempo perché il tizio – Alberto si chiamava – andava sempre a comprare le sigarette o a giocare al Lotto nel suo tabacchino, ma per mio padre si trattava di una faccia quasi nuova.
“Un tipo che sa tutto lui” mi aveva spiegato mentre andavamo in spiaggia quel pomeriggio, “che ha girato parecchio, che ha fatto, che ha brigato, di qualsiasi cosa tu parli, lui ne sa qualcosa. Ha una storia o un aneddoto su tutto.”
“Ma chi?” si era intromessa mia madre. “Alberto del bar sulla spiaggia?”
Mio padre non l’aveva neppure guardata. Il vizio di intromettersi nei discorsi altrui se lo sarebbe portato fin dentro la tomba.
“Un mascalzone” avevo sentito mia madre dire. “Che mentre girava il mondo sua figlia entrava e usciva dagli ospedali.”
Avevo visto mio padre scuotere la testa. L’avevo visto sorridere malvolentieri, senza interrompere la camminata.
“Allora andiamo o no?” chiedeva il cugino di mio padre.
“Andiamo. Cinque minuti e andiamo.”
E nuovamente si asciugavano il sudore dal volto, alzavano e riabbassavano gli occhiali sul naso, e rimanevano per un altro po’ in silenzio a guardare chi passava sulla spiaggia.

Mio padre era cresciuto durante la Seconda Guerra Mondiale, negli anni in cui le bombe avevano cominciato a cascare sulle case, prima per sbaglio, poi con testardo accanimento, e le sirene avevano rubato la scena ai grilli.
Da bambino mi raccontava spesso della sera in cui lui e mia nonna camminavano a passo svelto per uno dei vicoli del paese, l’eco degli allarmi ancora a morire tra i muri, odore di bruciato – “carne bruciata, non cucinata, bruciata” – a risalire dalle macerie. Svoltato un angolo si erano ritrovati tra i piedi una vicina di casa. Era per terra, una gamba staccata dal resto del corpo, l’altra aperta fin dentro l’osso. Li aveva guardati senza dire una parola, col busto e le anche appiccicati, insieme al fiato, nel sangue. Mia nonna portava in braccio mio zio. Teneva mio padre di fianco a sé con l’altra mano. Aveva dovuto strattonarlo, fisicamente trascinarlo via per staccarlo dall’ipnosi di quella scena.
Per anni mio padre era cresciuto domandandosi perché non si erano fermati ad aiutarla. “Perché non c’era più nulla da fare” aveva sempre risposto mia nonna. Ma quell’immagine era rimasta lì, e dalla sua testa era finita nella mia, in attesa che qualcuno fosse in grado di raccoglierla e trovarle un posto in cui stare.
Io pensavo a quella scena mentre guardavo mio padre e suo cugino che osservavano il domenicale passeggio  di costumi sulla spiaggia. Mi chiedevo che effetto facesse, a due vecchi come loro, tutto quel cerimoniare di fianchi e occhiate.
“Allora facciamo così. Andiamo a scambiare due chiacchiere e se ci offre un bicchiere lo prendiamo. Altrimenti stiamo un po’ lì  e poi torniamo.”
Pareva un’idea che soddisfaceva mio padre. Il dottore due mesi prima aveva detto “niente vino” “niente formaggi” “niente dolci” “niente caffé” “niente grassi di alcun tipo e per nessuna ragione.” Restava solamente il sesso, aveva commentato tra sé e sé mio padre, senza però parlare. Il dottore aveva aggiunto “…e niente pasticchina blu.”
“Un bicchierino non può far male” gli sentivo dire.
Cercava di convincersene. O forse mi aveva visto da dietro le tapparelle scure degli occhiali, e chiedeva una giustificazione. Voleva un appiglio, un supporto, un atto di silenziosa complicità.
Avevano cominciato a parlare del passato. Questo fanno i vecchi per gran parte della loro giornata. Parlano degli anni che furono e delle donne ancora giovani che passano loro di fronte.
Mio padre stava raccontando di quando, negli anni cinquanta, era ancora possibile nuotare da un lato all’altro del muro del porto attraverso un’apertura sotterranea. Io mi ricordavo che, ragazzino, ci si poteva ancora entrare nel porto, e tuffarsi in mare dai muri di cinta o dal tettuccio dell’idrovora. Adesso un’inferriata e qualche tonnellata di cemento l’avevano distaccato una volta per tutte dal resto della città. Entrate separate. Percorsi distanziati. Un terzo della spiaggia divorata dalle nuove costruzioni dell’Autorità Portuale, un altro pezzo nella bocca dei privati. Il Comune si era preso la sua fetta, spalmando una piazza grigia e circolare dove prima stava la sabbia. “A tutti i marinai d’Italia” c’era scritto nella dedica. Che si sappia, i marinai amano le piazze.
Io più ci pensavo e meno riuscivo a immaginarmela la spiaggia ai tempi di mio padre e suo cugino. Con le tracce delle bombe che venivano rimosse insieme alle coscienze, e la dolce vita ad aspettare tutti quanti dietro l’angolo.
Mi ero messo a scavare con un piede davanti alla sdraio. La sabbia era un misto di stecchi e sporcizia. Più affondavo sotto la superficie e più emergevano pezzi di legno, coperchi trasparenti di yogurt, stracci di plastica, stoffa marcia.
A detta del proprietario dello stabilimento balneare – che aveva dovuto rispondere alle lamentele dei turisti – non era mica colpa loro. Loro cicalavano tutte le mattine. Non potevano rimuovere più di tanto quello che stava sotto, in profondità. Come ogni anno, prima dell’inizio della stagione, i proprietari si erano presi il compito di ripulire la spiaggia a monte mentre il Comune si era addossato la responsabilità degli ultimi 50 metri. Il Comune aveva fatto venire le ruspe, insabbiato la maggior parte della spazzatura sotto la superficie. Ributtato il resto in mare.
Guardavo mia nipote fare castelli di stecchi e plastica sotto l’ombrellone, e mio padre osservare il bagnasciuga. Mia sorella sdraiata da ore sotto il lettino a far provvista d’abbronzatura prima di dover tornare in città – chissà dov’era il suo ex marito in quel momento –. Il mare mi pareva un parcheggio di tir travestiti da navi, con strisce zigzaganti di moto d’acqua a far loro il solletico. Ai miei tempi, al massimo, scorgevi la forma gentile di qualche pedalò in lontananza. A quelli di mio padre, c’erano i pattini in legno. Prima ancora forse null’altro che pesci.
Continuavo ad estrarre pezzi di plastica e stecchi tra le dita dei piedi. Senza accorgermene, avevo cominciato a scavare anche con le mani.
Un portacannucce trasparente, un tubetto di dentifricio, un pezzo di stoffa, la parte superiore di un’infradito. Più scavavo e più trovavo. Più trovavo e più estraevo.
Mi ricordai che da bambino andavo sempre a giocare con la sabbia vicino alle docce in uscita dai bagni. Mia madre veniva ogni volta a portarmi via. Diceva che non era igienico giocare nel sudicio degli altri. Io costruivo torrenti, dighe, laghetti, sistemi d’irrigazione geometrici e senza fine. Passavo pomeriggi interi in attesa di qualcuno che si facesse la doccia e spargesse acqua attorno. I più desiderati erano i gruppi di due o tre persone, le famiglie coi figli al seguito, le giovani coppie.
Adesso le tubature interrate portavano l’acqua lontano, di nascosto, e la sabbia era stata rimpiazzata da aiuole dove non era permesso andare. I bambini se ne stavano in un recinto appositamente studiato per i loro bisogni. Essere al mare o andare ai giardini pubblici non faceva più nessuna differenza.
“Mia moglie parlava della figlia di Alberto” aveva cominciato a dire mio padre. “Pare abbia fatto avanti e indietro dagli ospedali…”
“Depressione prima, anoressia poi. Ma adesso sta bene. Con Alberto si sono riconciliati, sono in buoni rapporti. Lei si è sposata. Ha aperto un’agenzia immobiliare.”
Ascoltavo mio padre e suo cugino saltare da un argomento all’altro, e intanto estraevo oggetti da sotto la sabbia. Si erano messi a discutere di qualcuno che non conoscevo, talvolta ridevano, poi stavano qualche istante in silenzio, curiosavano attorno, commentavano con gentilezza le forme di una donna appena uscita dall’acqua.
A tratti, come me, guardavano il mare. Eppure sentivo che non stavamo vedendo la medesima cosa.
Io mi domandavo di chi fosse la colpa del porto chiuso, del cemento calato, della sporcizia nascosta, delle aiuole e dell’anoressia della figlia di Alberto.
Intanto estraevo resti di vita di qualcun altro, avanzi di fiume. Avevo voglia di gridare e mettermi a correre, invece stavo seduto e scavavo. Ascoltavo i discorsi di chi mi stava attorno e rimuginavo.
“Oggi chi c’è al tabacchino?” stava chiedendo mio padre.
“Marco.”
“Bene.”
“Forse.”
“Forse cosa?”
“Forse Marco è al tabacchino. Ci sono passato davanti alle 4 ed era ancora chiuso. L’ho chiamato sul cellulare. Mi ha detto ‘Pa’, checcazzo, sto al casello dell’autostrada, ci sto andando ad aprire.’”
Mio padre aveva sorriso. “Da dove veniva?’”
“Sono andati col bambino a fare un giro all’Ikea.”
Ikea. Un nome che mi dava i nervi al solo conoscerne l’esistenza.
“La vita è bella” sentii in quel momento mio padre dire.
Io avevo appena finito d’estrarre una lunga striscia scura, che assomigliava in tutto e per tutto ad un assorbente usato.
“La vita è bella, nonostante tutto” sentii mio padre ripetere. Più l’ascoltavo e più non capivo.
Più mi guardavo intorno e più mi sentivo fregato, circondato, braccato, finito. Tradito.
Certo che la vita è bella, ragionavo continuando ad estrarre lattine, bastoncini, noccioli, cerotti, se non fosse per tutte le maniere in cui cerchiamo di rovinarla.
“Andiamo a farci questo bicchiere” sentii a quel punto mio padre dire. Si erano alzati, si stavano incamminando mezzo ingobbiti verso il bar della spiaggia. Mio padre mi sembrava un vecchio dio, che si allontana dal luogo del sacrificio portandosi dietro il segreto di tutta la sua saggezza e del suo sorriso. Come da bambino, ebbi la sensazione di qualcosa che continuava a sfuggirmi.
Le mani sporche. La sabbia sotto le unghie. Il cumulo di sporcizia ammassata in una piccola piramide di lato alla sdraio.
Non potevo prendermela con loro in fondo. Da ragazzino giocavo nel sudicio di chi si faceva la doccia, mia nipote, oggi, scavava in quello di chi sotterrava la spazzatura. Difficile dire cosa e quando aveva cominciato ad andare storto.
Dall’assorbente intriso di sabbia era uscito in quel momento un paguro. Mi era parso si fosse guardato attorno, mi avesse fissato, un po’ sfasato, un po’ deluso, in cerca di qualcosa d’interessante che non era riuscito a trovare.
Poi era tornato nell’umido confortevole della sua tana.



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