Sottotitolo: “Non siamo tutti così”
Bob Dob, “The line up”
Un’altra delle obiezioni che emergono con più frequenza quando ci si occupa di tematiche di genere, quando per esempio si denuncia l’aumento della violenza contro le donne o quando si discute del permanere della mancanza di parità di genere in certi ambienti, consiste nell’affermare che se si dicono queste cose si colpevolizzano tutti gli uomini. Di solito poi l’autore dell’obiezione tiene a precisare che “lui non è uno di quegli uomini lì, che non è un violento o che non è cattivo ecc ecc” e spesso conclude con un’affermazione dalla spiazzante perentorietà: “io amo le donne”. Tralasciando quest’ultima frase, ridicola da un certo punto di vista (ami le donne, ma proprio tutte tutte? non ce n’è nemmeno una che ti sta antipatica?) e che denota la stessa forma di “amore” che provo io per i biscotti o il formaggio, ci sono diversi aspetti da analizzare in relazione a questa obiezione.
Innanzitutto si richiama alla fin troppo facile accusa di generalizzazione (se dici che aumenta la violenza degli uomini contro le donne, mi vuoi dire che tutti gli uomini sono dei violenti?), che ha come obiettivo quello di sminuire e minimizzare quanto sostenuto dalla tesi proposta. Generalizzare è una brutta cosa, non è un atteggiamento politicamente corretto e l’accusa di aver generalizzato sembra aver la capacità di interrompere la discussione rendendo la tesi che si sostiene priva di valore. Tuttavia, tale obiezione risulta tanto efficace quanto facile da smontare. Perchè quando dico che la violenza degli uomini contro le donne è maggiore rispetto a quella delle donne sugli uomini, per esempio, non sto generalizzando, sto semplicemente basandomi su dati o statistiche che attestano che il primo caso accade con più frequenza rispetto al secondo.
Inoltre, credo che sia abbastanza ovvio che anche se dico che la violenza degli uomini contro le donne è in aumento non voglio accusare indiscriminatamente tutti gli appartenenti al genere maschile. Di cosa si tratta, senso di colpa inconscio? A volte sembrerebbe di sì, anche perchè succede spesso che chi muove questa obiezione poi abbia premura di precisare di essere una brava persona, di non essere un violento e ancora di “amare le donne”.
Talvolta succede invece che, quando si propone questa obiezione, al posto della presa di distanza dagli uomini cattivoni (non siamo tutti così, quelli sono cattivi o malati o vattelapesca, io no!), ci sia una vera e propria “alzata di scudi” simbolica a difesa dell’intero genere maschile. Sembra che gli uomini siano una categoria da difendere, come i panda o la tigre siberiana. Ma difendere da cosa? Bhè, ovvio dalle femministe, dagli organi istituzionali di statistica che pubblicano le ricerche, dai giornali, da tutto. Ecco allora che scatta un negazionismo degno dei preti lefebvriani, non è vero niente, che le ricerche intorno alla violenza (giusto per fare un esempio) sono false, in malafede e via così in un climax ascendente apparentemente inarrestabile che talvolta si completa con l’accusa di complottisto e la subitanea rivelazione della grande verità: le femministe sarebbe parte di una gigante cospirazione volta ad impadronirsi del mondo. Yuhuuu!!
Fatto sta che sempre, a fronte dell’obiezione volta a difendere se stessi o l’intero genere
maschile, non corrisponde alcuna modificazione di atteggiamento. Ciò capita anche tra coloro che sono interessati alle questioni di genere, che le comprendono e magari in parte le condividono. Si pensa sempre che queste cose non ci tocchino, che non ci riguardino, che noi siamo diversi, che il sessismo o la violenza si esprimano solo ed esclusivamente in atti plateali e i cui effetti sono chiari ed evidenti. Ci si sente perciò giustificati a perpetrare quel “sessismo da bar” che è tanto presente per esempio sui social network, postando come se niente fosse battute sessiste sulle donne in generale o su alcune in particolare (il blog Un Altro Genere di Comunicazione ha trattato più volte di questo qui e qui) o iscrivendosi a quanto mai inquietanti pagine di facebook che inneggiano a cagne, troie o altre finezze di tal genere. Per carità questo non è paragonabile ad un atto di violenza vero e proprio, ma l’atteggiamento è il medesimo. Si tratta sempre di introiettare e perpetrare un modello culturale profondamente maschilista che tratta le donne come proprietà e come oggetti.Che si tratti di violenza o di becero sessismo si tratta in entrambi i casi di atteggiamenti che portano avanti un modello complessivo di società patriarcale che annovera tra i suoi aspetti preponderanti la disparità tra i due generi. Secondo questo conscio od inconscio modello, il genere femminile è considerato sotto molti aspetti inferiore: è un gruppo di persone che da un lato ha bisogno di protezione e guida (l’idea della donna come essere indifeso da proteggere), atteggiamento patriarcale che ben presto si modifica in un attitudine di prevaricazione e dominio, dall’altro però proprio per questa sua debolezza intrinseca il genere femminile risulta quello da schermire, da deridere, spesso proprio per rimarcarne diversità (nel senso di inferiorià) rispetto a quello maschile. Si badi bene che il limite tra il compatire e il dileggiare è molto molto labile.
Il punto è che se si vogliono modificare le cose prima che alla legislazione bisogna fare appello ad un cambiamento culturale. Che deve partire da tutti, donne e uomini, e che non si ottiene semplicemente condannando la violenza. Violenza e sessimo si combattono ogni giorno a partire da sè e dai propri atteggiamenti, da quello che si pensa e da quello che si dice, altrimenti non si è meno violenti o meno sessisti di quelli che ammazzano le mogli.