Oggi al Cinema ha intervistato per voi il regista Ilmar Raag.
“Attraverso la storia di due donne estoni a Parigi, il regista mostra le difficoltà di vita e di comunicazione tra due persone che appartengono alla stessa cultura ma a diversi strati sociali. In modo toccante Raag approfondisce i temi della perdita, dell’invecchiamento, dell’amore, della sofferenza e dell’incontro con un altro in un film girato con eleganza e interpretato magnificamente”. Con questa motivazione il Festival di Locarno ha premiato il film A Lady in Paris, a breve nelle nostre sale.
Lei è un regista ma anche un giornalista. Come crede che si possano coniugare queste due professioni? Il cinema ha un valore sociale?
E’ la prima volta che mi viene rivolta questa domanda ma mi piace molto. Per me il cinema è solo un altro strumento per trasmettere un messaggio. Ciò che mi interessa maggiormente è confrontare me stesso con il genere umano lanciando un messaggio. In questo senso un regista ed un giornalista possono essere sulla stessa lunghezza d’onda perché pensano quotidianamente alla società. Ma cos’è la società? E’ il modo in cui gli essere umani si relazionano. Il valore sociale di un film è conseguentemente l’impatto che il cinema può avere su queste relazioni.
Lei ha detto che la storia di A Lady in Paris è stata ispirata da un evento personale della vita di sua madre. Cosa aveva di speciale questa storia tanto da realizzarne un film?
Ci sono due ragioni principali. Innanzitutto io conosco molto bene nella vita il prototipo del personaggio di Frida. Era un’anziana signora che tentò due volte il suicidio. Ho però vissuto diversi anni con mia madre e mi sono chiesto cosa avrebbe potuto generare in quella donna la voglia di continuare a stare al mondo. Il secondo motivo è che mia madre cambiò molto dopo il suo ritorno da Parigi. Si è di nuovo innamorata e si è sposata per la seconda volta all’età di 55 anni. Questo tipo di trasformazioni sono sempre molto interessanti perché danno speranza.
Che ruolo gioca la città di Parigi nel suo film?
La gente è solita chiamarla ‘la città dell’amore’. Credo che sia una leggenda che aiuta le persone che si trasferiscono a Parigi ad essere più rivolte verso la speranza e il romanticismo. Nel mio film volevo trattare appunto il mito di Parigi. Quando Anne (la protagonista del film, n.d.r.) arriva a Parigi, ammira gli splendidi edifici, è entusiasta ma è sola. Alla fine invece lei capirà che Parigi, parafrasando Hemingway, “è parte di lei”.
Qual è il punto di incontro tra due culture diverse come quelle di Frida e Anne?
Anne rappresenta quella silenziosa cultura nordica protestante che alle volte nega i semplici piaceri della vita. Frida, invece, è tutto ciò che si può dire riguardo l’edonismo e l’egoismo. Il paradosso è che in entrambi i casi ti puoi trovare solo alla fine della tua vita. Tutto ciò che Anne e Frida desiderano è un posto accanto ad una persona che le ami.
Come vengono affrontati i tempi dell’invecchiamento e della morte nel suo film?
Nella sceneggiatura originale c’erano diverse scene che mostravano i tentativi di suicidio di Frida. Il suo più grande problema è la solitudine. Nella sua testa si sente ancora giovane e pronta per nuove avventure amorose ma il suo corpo sembra tradirla. Alla fine del film riuscirà invece a convivere con questa condizione. L’idea di terminare la propria esistenza in un stato di pace e non di amarezza era molto cara a Jeanne Moreau. Significa guardare al mondo con speranza anche nel momento della fine.
Proprio la grande attrice Jeanne Moreau è una delle protagoniste del suo film. Come si è sentito a doverla dirigere sul set?
Dico sempre che dirigere Jeanne Moreau è impossibile. L’unica cosa possibile è lavorare con lei. E’ molto esigente e, secondo le vecchie maniere, abbiamo avuto un vera e propria “relazione epistolare” durante la quale mi scriveva le sue idee sul film. Ci siamo scritti delle lettere e solo così si è decisa a prendere parte al cast del mio film.
Lei è stato premiato al Locarno Film Festival ed il suo film è stata una vera sorpresa. Quale crede che siano i suoi pregi come regista?
Il mio credo è quello di raccontare storie molto personali e realistiche. Poi mi piace anche sperimentare diversi stili. Il mio prossimo film sarà molto diverso dal punto di vista stilistico. Quello che mi interessa maggiormente è il realismo. Non che io sia contro la concezione hollywoodiana di cinema ma credo che nella vita reale ci siano cose molto più interessanti da raccontare. Delle volte mi impressiona vedere come gli studenti provino a creare film eccessivamente simbolici o fantascientifici in modo da non doversi mai confrontare con le loro gioie e le loro paure. Credo che il realismo sia anche una questione di coraggio.
Recentemente un altro film straordinario, come Amour di Michael Haneke, ha trattato i temi dell’invecchiamento e dell’amore. Naturalmente si trattava di un film molto triste e pessimista. Lei come ha percepito quel film e quali sono i registi ai quali si è ispirato per realizzare A Lady in Paris?
E’ divertente pensare che siamo in molti ad aver pensato di trattare questo tema. Infatti, mentre scrivevo la sceneggiatura, scrissi una versione del film che era molto vicina allo spirito del film di Haneke. Ho come avuto l’impressione che Haneke dispregiasse il genere umano ma credo che questo film siano uno dei meno controversi di Haneke. Io non sono ancora così crudele. Sono diversi i registi che apprezzo a cominciare dal regista scandinavo Ingmar Bergman per arrivare a Lars Von Trier e finire con il Woody Allen di “Io e Annie” e all’Inarritu di “Babel”. Come regista ho la libertà di non essere categorico come un critico cinematografico. Un giorno mi piacerebbe realizzare un film horror come “The Others” di Amenàbar.
A Lady in Paris sarà nelle nostre sale a partire dal 16 Maggio.
di Rosa Maiuccaro