Olanda: se anche la patria del Welfare State si inchina all’austerity
La crisi economico-finanziaria nata nel 2009, com’è noto, ha messo in ginocchio (quasi) tutti i paesi della cosiddetta Eurozona ed ognuno di essi, in modi diversi, ha cercato una soluzione al disastro.
Una politica però è diventata il fil rouge indiscusso in questi anni: l’austerità o austerity come preferiscono chiamarla gli addetti ai lavori. Questa politica del rigore ha imposto ai vari Stati una forte riduzione della spesa pubblica e una maggiore attenzione ai conti; ciò ha portato inevitabilmente i vari capi di Stato a trovarsi davanti a dure scelte, sacrificando alcuni dei meccanismi che hanno fatto grande il Welfare State degli anni 90 e che ancora oggi era sopravvissuto.
Oggi secondo i guru dell’austerity, il welfare state (stato sociale in italiano) è troppo oneroso ma soprattutto risulta anacronistico, il suo tramonto ha fatto gridare allo scandalo una parte delle persone, convinte che questo fosse l’unico vero sistema affinchè lo Stato svolgesse realmente il fine per cui esiste: assistere il cittadino “dalla culla alla tomba”, redistribuire la ricchezza ed eliminare quanto più possibile le disuguaglianze sociali. Un’altra parte di soggetti ha invece salutato con ampi festeggiamenti il tramonto dell’era del welfare state, accogliendo con gioia il trionfo del liberismo economico e del privato che si occupa di qualunque questione mentre lo Stato sta a guardare in modo neutro.
L’evento storico che probabilmente segna questa svolta è avvenuto in Olanda, la patria del welfare State, sede della più avanzata forma di Stato Sociale. Qualche mese fa, infatti, in occasione del suo discorso davanti alle Camere del Parlamento, il re Guglielmo Alessandro ha riferito un annuncio choc: “A prendere il posto dello ‘Stato sociale’ sarà una ‘società di partecipazione, nella quale i privati cittadini dovranno investire per creare delle reti di assistenza sociale, con poco aiuto da parte del governo. “La nostra economia è ancora vulnerabile”, ha ricordato il re d’Olanda, “a causa della crisi finanziaria e dei debiti accumulati negli ultimi anni. Siamo tuttavia un Paese prospero, anche da un punto di vista economico. Per questo, cittadini, imprese e banche ora devono rafforzare i propri bilanci”. L’intervento rientra nella politica di austerity del governo olandese, che negli ultimi dieci anni ha già portato allo smantellamento delle indennità di disoccupazione e dei sussidi sanitari. Tagli a cui si aggiungono ora ulteriori riduzioni per cercare di far tornare alla crescita la quinta economia dell’Eurozona. Ciò che preoccupa il monarca, insediatosi il 30 aprile dopo l’abdicazione della regina Beatrice, sono soprattutto i problemi delle banche e l’indebitamento delle famiglie. Il messaggio è chiaro: il Welfare State è ormai insostenibile; la crisi ci porta a dover scegliere le nostre priorità; ma affidare qualunque settore (dall’istruzione alla sanità, dalle pensioni al lavoro) ai privati è davvero la soluzione? Si può dormire tranquilli pensando che lo Stato non debba in nessun modo assolvere la sua funzione di garante dei propri cittadini e affidare invece tutto nelle mani di coloro che, in qualche modo, hanno creato la stessa crisi al centro del dibattito?
Come sempre sono tante le domande ma poche, pochissime, le risposte; a tal proposito risulta comunque interessante leggere alcune righe di José Antonio Nieto, professore di Economia Applicata della Ucm (Università Complutense di Madrid), sicuramente molto più autorevole di chi scrive:
“La crisi si può intendere come una guerra contro lo Stato, perché ha dato priorità all’accumulazione del capitale, in particolare resa protagonista del potere finanziario. Per contro la legittimazione davanti ai cittadini sembra non essere prioritaria. Perché i cittadini sono importanti soltanto quando devono votare e pagare le tasse? Perché bisogna definire il nuovo Stato Sociale decentralizzato e coerente con una nuova tappa dell’integrazione europea? Perché il futuro che ci aspetta è fatto di maggiore diseguaglianza e possiamo finire classificati tra i cittadini di prima categoria (molto pochi), di seconda (impoveriti) e di terza (immigrati)? O perché bisogna dare un pugno sul tavolo per riempire di contenuto il concetto di cittadinanza che tanto ci manca?
Un’ultima domanda la aggiunge chi scrive: “Qual è il vero prezzo dell’integrazione europea?”