Magazine Società
da www.micromega.net
Con la crisi è "tornato di moda" il problema della disuguaglianza. Troppo spesso però il dibattito su questo tema è recintato dagli angusti confini dello Stato nazione. Nell'ultimo libro di Ulrich Beck - "Disuguaglianza senza confini" - un proposta di analisi fondata sul "cosmopolitismo metodologico". La crisi economica nella quale ci stiamo ormai abituando a vivere ha avuto almeno il merito di riportare sulla ribalta del dibattito pubblico un concetto che negli anni passati era decisamente fuori moda: quello della disuguaglianza. La letteratura sul tema si moltiplica e la parola occupa sovente le prime pagine dei giornali. «Disuguaglianza» è un concetto eminentemente relazionale, ha bisogno di almeno due termini di confronto, bisogna sempre individuare un «noi» e un «altri», nei confronti dei quali «misurare» il grado di maggiore o minore disuguaglianza. E nel compiere quasta operazione si delimita anche l’ambito all’interno del quale la disuguaglianza costituisce un problema politico. Nelle nostre società questo perimetro è rappresentato dal confine dello Stato nazionale: la disuguaglianza tra «noi» e i nostri concittadini è un problema politico rilevante, quella – spesso sconfinata – tra «noi» e i cittadini di altri Stati è una questione di ordine tuttalpiù filantropico, non certo politico.
Ulrich Beck – in un recente, agile libretto pubblicato da Laterza dal titolo Disuguaglianza senza confini – ha il merito di porre la questione delle «frontiere della disuguaglianza». Un regime di disuguaglianze può reggere finché esso trova in qualche modo un principio che lo legitimi, rendendolo «tollerabile»: all’interno di un paese è il sistema economico e la struttura sociale che «legittima» la disuguaglianza nazionale, rendendola accettabile proprio finché essa non raggiunge un livello tale da mettere a repentaglio l’ordine e la coesione sociale. E cos’è che legittima la disuguaglianza globale? «Il principio dello Stato nazionale», risponde Beck. Ma assumere il «principio dello Stato nazionale», sostiene il sociologo tedesco, è un errore metodologico che distorce la realtà, impedendoci di capire i fenomeni nella loro complessità. Guardare alla disuguaglianza globale in una prospettiva cosmopolitica – che dia peso «politico» alle disugaglianze al di là delle frontiere nazionali – è quidni per Beck una questione di realismo, prima ancora che di giustizia. Beck ce l’ha innanzitutto con la sociologia e con il suo «nazionalismo metodologico», incapace di dare forma e dunque di rendere comprensibili fenomi come le migrazioni (nel quale rientra anche la cosiddetta «fuga dei cervelli»), il terrorismo internazionale, il mutamento climatico. Tutti fenomeni che travalicano e spesso travolgono le frontiere nazionali e che solo una prospettiva cosmopolitica «che includa gli altri» può tentare di spiegare. Un cosmopolitismo metodologico dunque, che non è affatto detto che si porti dietro un «progetto cosmopolitico». La «cosmopolitizzazione» - che, spiega Beck, «si riferisce agli effetti collaterali sociologicamente più rilevanti della globalizzazione, in primo luogo il confronto involontario con l’altro» - è un fatto, ma questo non significa che siamo diventati tutti cosmopoliti. Anzi, la cosmopolitizzazione di fatto ha provocato ondate di rinazionalizzazioni un po’ in tutto il mondo. Ciò non toglie che togliersi gli occhiali dello Stato nazione per indossare quelli del «cosmopolitismo metodologico» è un primo indispensabile passo verso la comprensione dei fenomeni globali. E senza la comprensione è impossibile anche l’azione. Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011, euro 9
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