Magazine Famiglia
Facevo i miei quattrocento chilometri del fine settimana, prima in treno e poi con la mia prima macchina, una centoventisei usata, ci passavo tutte le vacanze di Natale, di Pasqua e i ponti delle altre festività.
Delle tante cose sentite prima dei due anni di corso nessuna si rivelò esatta. Non ci vollero raccomandazioni per accedere, ma il superamento di un test attitudinale, molto somigliante ai quiz intellettivi. Poi si studiava e parecchio, ed essendo un corso privato si pagavano una quantità incredibile in tasse. Con un vantaggio non trascurabile, certo, dal provveditore (allora si chiamava così) c'era talmente tanta richiesta di insegnanti di sostegno che l'incarico annuale arrivava prima della conclusione del corso, bastava indicare nella domanda di supplenza di essere iscritti al corso di formazione per il sostegno.
In quel corso è avvenuta la mia vera formazione, non vale come una laurea, ma negli anni ho capito che è parecchio di più di una laurea di allora: lo studio della fisiologia del sistema nervoso, neuro psicopatologia dell'età evolutiva, pedagogia, psicologia, didattica, psicomotricità in forma di laboratorio, si sperimentavano sul corpo le emozioni, l'interazione nello spazio, la messa in gioco del corpo, poi i dibattiti, le esercitazioni, le simulazioni, il portfolio... tutte cose del quale nella scuola ho sentito parlare solo dopo anni. Un impronta che non è mai scomparsa in tutti questi anni di lavoro a scuola. Sul destino e sul ruolo, per come si configurava allora, dell'insegnante di sostegno scrissi pure la mia tesi conclusiva.
E più di ogni altra cosa ricordo la sensibilità verso coloro che negli anni sono stati: handicappato, disabile, diversamente abile. Per noi erano semplicemente i ragazzi, i ragazzi rinchiusi negli istituti, per cui la scuola pubblica era ancora preclusa, le esperienze degli operatori, che arrivando dal fronte raccontavano la vita dall'infanzia in poi in istituto, e spesso davano dimostrazione delle tecniche per affrontare i casi più gravi. Erano gli anni in cui si levava ancora il grido forte di scuola pubblica per tutti, il dibattito era perfino aspro in certi casi, sono certa che molti lo ricordano. E il ruolo dell'insegnante di sostegno nella mia visione si perfezionò come di un insegnante con una sensibilità speciale, un mediatore rispetto alla cosiddetta normalità, uno in grado di rendere possibile l'inserimento di una persona diversa in una scuola che allora era davvero costruita per poche tipoligie d'individui.
Una persona dotata della forza necessaria a sfidare anni di separazione, capace di gioire enormemente e di piangere in maniera solidale, disposto a usare il corpo come mezzo per l'altro, ad asciugare lacrime, bava e pipì. Perché il corpo di ciascuno è fatto anche di questo. Imparai che la disabilità può toccare a tutti, inaspettatamente.
Dei tanti che eravamo allora, moltissimi ancora oggi fanno il sostegno, i miei dati smentiscono l'idea che il sostegno è il trampolino per il ruolo comune, credo anche che è giusto che rimanga a farlo solo chi è veramente motivato, anche se la cultura del sostegno dovrebbe appartenere a tutti nella scuola. Allora i concorsi uscivano ogni due anni e non di rado mentre si frequentava il corso si vinceva la cattedra di posto comune, come è accaduto anche a me. E quelle colleghe e quei colleghi di allora, ancora oggi fanno questo lavoro interpretandolo a seconda delle situazioni: anche con la vicinanza fisica quando necessario, e sono ancora molti i casi in cui c'è bisogno del contatto fisico, oppure con discreta vicinanza alla classe aiutando e sostenendo nel difficile mestiere d'imparare chiunque si trovi in difficoltà.
E il senso autentico di questo lavoro è proprio la vicinanza e l'empatia verso l'altro, chiunque sia e in qualsiasi situazione di svantaggio si trovi. E' anche la forza, la rabbia, le lacrime e la perseveranza di inseguire i risultati anche dopo anni, di crederci sempre e comunque.
E ogni insegnante di sostegno e non, nella sua formazione dovrebbe accedere a queste conclusioni: poi possiamo istituire i coordinamenti territoriali che trovano nei Glh provinciali i loro naturali predecessori, rinominarli, possiamo avere docenti super specializzati, ma mai dovremmo allontanarci dalla dimensione umana che comprende, sì l'ufficio organizzativo, che dovrebbe stare all'interno della scuola stessa, ma più di ogni altro possedere la capacità di sostenere didatticamente un progetto di vita.
Non è detto che unificare in un organico indifferenziato, scindere il binomio insegnante di sostegno/alunno, sia la strada per l'affermazione dei bisogni speciali, la differenza, la diversità anche dei ruoli è ciò che coraggiosamente dobbiamo essere in grado di accettare e imparare tutti. Lasciando a ciascuno poi la capacità di esprimersi al più alto grado di interpretazione del proprio profilo professionale.
In una scuola così pericolosamente in bilico, forse non è neppure il momento storico adatto, pensare ad una unificazione. Rischiamo di ritrovarci tutti in cattedra e quei momenti in cui è necessario sedersi a fianco di un bambino rischia di diventare un pallido ricordo. © Crescere Creativamente consulta i Credits o contatta l'autrice.
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