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Oltrepassare le barriere: (per) un’estetica postmoderna

Creato il 02 novembre 2012 da Sulromanzo

Tomato soupMentre osservo il foglio bianco su cui prenderà forma il pezzo che leggerete, continua a tornarmi in mente la voce di Jim Morrison, mentre canta, con il suo timbro inconfondibile, «this is the end, my only friend the end», ancora pieno di una certa, angosciosa teatralità romantica. Penso alla celebre The End dei Doors perché sull’idea della fine è ruotato anche il nostro ultimo articolo. Un’idea della fine chiaramente molto meno “moderna” (riferito all’idea, non alla fine) e più “postmoderna”; fine intesa come nuovo inizio, ondata di possibilità e liberazione, piuttosto che come tragico capolinea. Sempre nel precedente articolo abbiamo detto che il termine Post-moderno rimarca, in un certo senso, proprio questo resistere alla – e nella – distruzione delle certezze, delle interpretazioni passate, delle verità posticce. E, se il Pensiero Postmoderno si è abituato al pensiero (scusando il gioco di parole) di muoversi tra le sue stesse macerie, per ricomporne e riconfigurarne la pianta e l’impalcatura precedente, lo stesso in qualche modo è avvenuto in arte. L’arte sopravvissuta alla saturazione dei percorsi artistici. Seguendo questa impostazione, a rischio di una brutale semplificazione, possiamo tentare di tracciare una linea di demarcazione che contraddistingua le riflessioni estetiche postmoderne, partendo da un essenziale punto di rottura con il passato; la perdita di fiducia nelle possibilità dell’arte di rigenerare e rinnovare se stessa all’infinito. Da questo elemento di frattura si sviluppano alcune tendenze estetiche postmoderne; la commistione tra elementi “alti” e “bassi”, la rinuncia a riprodurre e scandagliare fedelmente la realtà, l’abbandono della vana pretesa di trovare un senso e di una verità inequivocabili nelle cose.

La ricerca del nuovo, dell’intentato, dell’originale è sempre stata un punto fondamentale nella ricerca artistica. La volontà irrefrenabile di ritrovarsi moderni, recenti e quindi migliori, ha mosso gli artisti nello studio delle forme. Ma la ricerca del nuovo – e quindi del moderno – rappresenta in realtà una falsa infinità, poiché esso è identificabile solo in assenza e scompare al momento stesso della sua scoperta. Come la modernità, anche il nuovo contiene da sempre i germi del suo stesso trapasso. Inchiodandosi alla ricerca della novità e dell’originalità, l’arte si è condannata al suo suicidio, rinunciando a inseguire un ideale di bellezza e di perfezione atemporale in cambio del caduco e dell’effimero. «Eleggendo a proprio oggetto la “novità” l’arte ne avrebbe seguito il destino: ciò che oggi è nuovo è condannato a essere obsoleto domani» (G. Chiurazzi, Il Postmoderno, Bruno Mondadori, 2002). Come nella filosofia di Richard Rorty l’artista dovrebbe invece limitarsi a rivisitare e ripercorrere il passato con distacco e ironia, reinterpretandolo alla luce del suo tempo. Con la stessa lettura ironica, l’artista postmoderno si abituerà a vivere nel mondo divenuto maschera, limitandosi a inseguire la novità solo dopo aver dichiarato, con distacco, la propria consapevolezza della provvisorietà di quest’ultima. L’artista postmoderno sogna sapendo di sognare, ricerca un’ideale di bellezza immanente e immateriale, simile ai prodotti mediatici e ai simboli della società in cui vive.

Partendo da questa riformulazione prospettica è facile capire perché l’estetica postmoderna tenda ad abbattere i confini e le dighe che separavano l’arte dalla vita quotidiana. In un’epoca in cui sono crollate le barriere spazio-temporali, le barriere tra realtà e finzione, in cui la riproducibilità tecnica e la ricezione simultanea allargano a dismisura il pubblico potenziale, l’artista non può più arroccarsi su un piedistallo distaccato e distante, rivendicando l’esclusività del proprio operato. Opera d’arte e prodotto di consumo sembrano così costretti a collidere. Ed è una collisione provocatoria. Scopo dell’arte sarà dunque quello di suscitare la pubblica indignazione, ponendo la società postmoderna di fronte ad uno specchio che la riflette, con le sue imperfezioni e le sue forme vacue, come con le lattine e le scatolette di Andy Warhol e nei lavori più indisponenti di Rosenberg e della Pop art. Su questo orizzonte teorico si muovono due grandi critici del Novecento come Leslie Fielder e Susan Sontag; il primo, traducendo il titolo di uno dei suoi saggi più importanti, invita apertamente a oltrepassare le barriere e richiudere gli spazi vuoti (Cross the borders – close the gap), restituire all’arte il suo potere dissacrante e dissacratorio, la sua forza di stordire, avvicinandosi ai gusti della gente, alla banalità della vita quotidiana; la Sontag invece ha individuato nel Camp- che è il termine che la cultura americana usa per indicare il Kitsch - e quindi nel dozzinale e faceto, lo strumento per scardinare le facili convinzioni della società di massa, per scuotere una società intorpidita ed imborghesita, inconsapevole di se stessa. La differenza tra ciò che può essere considerato a buon diritto arte e ciò che non può, tra ciò che è bello e ciò che è brutto, è una differenza, secondo la Sontag, mentale e non estetica, una convinzione relativa, una forma di schiavitù e di convenzione sociale.

L’altra conseguenza inevitabile all’interno dei rapporti di mercificazione e “mediatizzazione” contemporanei sta nella rinuncia da parte dell’arte a riprodurre la realtà. In un mondo in cui tutto è riproducibile all’infinito e in cui ogni cosa perde corporeità per diventare, come sosteneva Jean Baudrillard, semplice segno nella catena di rinvii, tentare di riprodurre il reale (senza una buona dose di cosciente ironia) diventa gesto vano e inconsistente. La realtà è irrappresentabile, è essa stessa così poco reale, è divenuta finzione, oggetto di studio incomprensibile e irriducibile. Di fronte a questa estrema presa di posizione già l’arte modernista aveva cercato di reagire, rompendo i legami con la realtà, fuggendo nel sogno surrealista, nella deformazione espressionista, nel gesto puro dadaista, nel flusso di coscienza, nella menzogna. L’arte postmoderna invece tende ancora una volta al malizioso gioco intellettuale, rimescolando gli stili, evidenziando i meccanismi di costruzione del prodotto artistico, ostentando la bruttezza, la semplicità del disegno litografico.

In questo modo e in ultima analisi, l’arte rinuncia al tentativo di riportare alla luce il senso incontrovertibile del mondo e delle cose, rinuncia alla ricerca dell’opera totale, che possieda in sé criteri di verità atemporali e intoccabili. Attraverso il gioco ironico e consapevole l’artista postmoderno partecipa invece alla creazione di un senso e di una sensibilità nuovi. Egli distrugge le vecchie certezze e ricerca un senso solo per mostrare l’impossibilità di ogni senso, per lasciare emergere il vuoto, il silenzio, l’inesprimibile, per mostrare l’indescrivibile e l’indicibile, spalancando così le porte della percezione e abituandoci a individuare il significato piccolo e nascosto tra le pieghe delle cose. Poiché tra realtà e finzione, tra l’arte e le cose, non c’è più nessuna differenza, l’artista postmoderno ha capito di poter creare allo stesso tempo il mondo e la sua rappresentazione.

«L’arte ispirata dalla risata di Dio non dipende, nella sua essenza, dalle certezze ideologiche, ma anzi le contraddice. Come Penelope essa disfa, nel corso della notte, la trama che i teologi, filosofi e scienziati, hanno tessuto durante il giorno».

Milan Kundera

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