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Ora rimane la sera. Una nota su Effekappa (Zona Editrice.)

Creato il 05 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da krauspenhaarf su aprile 5, 2012

Ora rimane la sera. Una nota su Effekappa (Zona Editrice.)

di Fabio Franzin

Non conosco di persona Franz Krauspenhaar, ma mi sono emozionato, qualche anno fa, leggendo il suo romanzo Era mio padre, dove l’autore ricercava, dentro la sua scrittura, le radici di un amore profondo, pur nel passato scomodo del genitore.
Non lo conosco di persona Franz, dicevo, ma so, per via del web dove ogni tanto mi rifugio – rete che tutto imbriglia e tira su, che tutto pesca nei suoi mari ora calmi, ora burrascosi, e sempre più spesso così inquinati dall’invidia e dal rancore, da discussioni insulse –, che anch’esso è una personalità scomoda, capace di attirare a sé simpatie e antipatie, di essere persino frainteso, credo.
A me, a pelle, sta simpatico. Sarà quel suo nome che è già più di metà del mio cognome, sarà che alcuni amici, in tempi per me più felici, mi chiamavano proprio Franz. Sarà… quella sua aria da sborone nelle foto che lo ritraggono – che ho trovato sempre nella rete, fra cozze e perle –; ne ho incontrati tanti con quell’aria: prima mi stavano un po’ sulle palle, poi, conoscendoli meglio, siamo diventati sempre ottimi amici; perché dietro la maschera c’è sempre l’uomo, con le sue lacrime, le sue fragilità. È dietro le facce serie e per bene che spesso si cela il farabutto.
Faccio questo forse inutile e sboccato preambolo, per dire che probabilmente anche Cristina Annino (che peraltro ho conosciuto e stimo), nella nota introduttiva a Effekappa, sia stata un poco tratta in inganno dal personaggio che ne è l’autore, piuttosto che al testo scritto da Krauspenhaar. Cito: “Il drammatico diventa la grammatica che definisce un mondo costruito da un ego spropositato”o ancora “La sua è la scandalosa presa di posizione di un io che, piaccia o no, non ci molla, ci fa vedere coi suoi occhi solo se stesso”.
Ecco, è soprattutto quest’ultima frase che non mi piace, che è indigesta: ci fa vedere coi suoi occhi solo se stesso; perché se così fosse davvero, Krauspenhaar non sarebbe un poeta, che è voce di tanti, anche di chi non ha voce, ma solo un guitto compiaciuto, intento a sfilarsi gli assi dai polsini davanti a uno specchio, mentre i lettori, mollate le carte, rimangono seduti al tavolo consci di essere stati fregati.
Io invece credo che, spazzando il campo da ogni immagine fuorviante, e lasciando sulla pagina solo ciò che è importante, cioè la scrittura, nuda e cruda, Effekappa sia un grande libro sulla solitudine e sul distacco, un canto desolato dove le parole pesano e fanno male da tanto sono acuminate, al punto che a esporle davanti a uno specchio (anche a quello di Narciso, anche a quello delle brame), se ne scivolasse fuori una si infrangerebbe in mille schegge. Anche quelle che paiono in sovrappiù, hanno una loro funzione taumaturgica, come cactus irti di spine a offrire presenza e sollievo nella desolazione di un deserto.
Tanto è vero, che Krauspenhaar vuole in epigrafe alla raccolta proprio un testo della Annino, (e guarda caso, lì non si parla di ego o di uno che pretenda di essere ammirato) dove il discorso sulla solitudine è lampante: siamo soli a dividerci un / po’ di manna, gli amici fan / finta di saltare ostacoli. Vanno / via. Vanno via, come i ricordi che poi riappaiono a bruciapelo, quando la sera rimane, con noi, e siamo noi la sera, la luce che si spegne sulle cose; non li vorremmo quei ricordi, vorremmo il calore di un abbraccio, non gli ologrammi di un passato che bussa con le sembianze di un fratello perduto, di un padre cui ci siamo finalmente riconciliati, ma che non è più possibile stringere a noi.
Non voglio infarcire questa mia breve nota, di versi dalla raccolta per renderla più polposa. Voglio che sia scarna come è scarna la solitudine.
Voglio solo dire che anche dove la giocoleria verbale di Krauspenhaar si fa obesa (di un obeso mai fine a se stesso, come ben evidenzia Teresa Caligiure nella postfazione), è solo l’abito gonfiabile indossato da una scrittura asciutta per non far capire quando essa soffra, quanto il dolore la consuma; l’armatura scintillante di gommapiuma del bambino a carnevale per sentirsi, almeno per un giorno un supereroe. Come nei suoi più che pseudohaiku: torrenti tumultuosi di lava e gingilli. Quando la lava si raffredda, si solidifica, qua e là spuntano le creste minerali di un dolore che tutti ci accomuna.
Krauspenhaar mi ricorda tanto il cantante Zucchero: uno che agli esordi è stato tanto frainteso: un italiano che vuol fare il bluesman, ma dài! emulo di Joe Cocker tanto da imitarne anche le movenze impacciate da poliomielitico… un emiliano che sogna il Mississippi, che fa la voce rauca e si mette in testa il cappello a cilindro, ma dài!… ora sono i bluesman di fama a richiederlo, e le sue canzoni sono hit mondiali; in quelle canzoni, in quei dischi, Zucchero ci dona brani in cui, sia musicalmente che nel canto, la desolata solitudine si alterna al gioco per esorcizzarla: pensiamo a Funky gallo, a Vedo nero…
Franz fa il duro, ci impone il suo muso ora da tenebroso, ora da bullo, da divo incazzato. Ci piace o non ci piace. Che importa? Lui è uno scrittore e un poeta che sa la sofferenza, ed è sopra la pagina che ogni nostra maschera cade e ci lascia soli con la sera che rimane, con i nostri segreti più feroci. Conta che questa sofferenza sia specchio per quella degli altri, e che dentro a quella lastra di vetro muti in conforto.
Tutto il resto, come dicono qui da me, sono ciàcoe.

[già pubblicato su Tornogiovedì.]


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