In “Why Plato wrote”: the insularity of Platonic studies (Center for Hellenic Studies Research Bulletin, Harvard 2012) Andrea Capra discute un libro di Danielle S. Allen, Why Plato Wrote, edito nel 2010, ad accesso chiuso, da una multinazionale dell’editoria scientifica. Il suo articolo merita la lettura perché aiuta a capire in che acqua nuotano gli accademici.
D.S. Allen è una studiosa nota e influente le cui tesi – secondo Capra - sono interessanti ma non nuove. Platone scrive per cambiare la vita di chi lo legge, tant’è vero che si trovano tracce della sua lingua in discorsi del IV secolo; non fa politica attiva, ma è una sorta di attivista culturale. Le fonti dell’autrice, che la inducono a dichiararsi originale, sono tutte recenti e di lingua inglese. Ella sembra ignorare, fra gli altri, autori antichi come Dicearco, e platonisti contemporanei come Gaiser e Cerri – il primo oscurato dall’associazione alla scuola di Tübingen, il secondo dall’italianità. C’è, dunque, “un’insularità crescente negli studi platonici, specialmente fra gli studiosi di lingua inglese, [per la quale] opere estremamente utili e valide sono ignorate solo perché non sono nella lingua o della scuola giusta”?
Mettendo per iscritto i suoi logoi, Platone, per così dire, condusse alla filosofia (proetrepsato) una quantità innumerevole di persone; d’altra parte, però, indusse qualcuno a far filosofia in modo superficiale (Dicearco, PHerc. 1021, Col. I 11-17, ed. Dorandi).
Platone, sociologo della comunicazione e retore filosofico, non era isolato. Perché gli umanisti di oggi si sentono tali, in un mondo la cui tecnologia è andata ben oltre le triremi e il manoscritto?
Come osserva Barbara Graziosi nel suo commento, la contesa non riguarda la completezza bibliografica – non si possono leggere tutti i libri – ma l’interpretazione platonica. Secondo Capra, vedere Platone come un “think-tank activist” e non come un politico della filosofia, che lavora per la filosofia e non per altri è parzialmente corretto ma superficiale. Questa superficialità si fonda a sua volta su una conoscenza superficiale, “insulare”, della letteratura secondaria. Chi scrive in inglese può permettersi di rappresentarsi come originale per un pubblico che non legge l’italiano o il tedesco o riduce gli autori all’etichetta della loro scuola.
La rete rende ancor più evidente che il mondo della cultura è infinito o indefinito, e che proprio in questo consiste la sua vitalità. Chi ne è consapevole evita di proclamarsi originale per non esporsi a facili confutazioni. È, d’altra parte, normale che idee simili si presentino negli ambiti più diversi e per le esigenze più svariate. Per esempio Mario Biagioli ha scritto, nel 2011, che solo F.Kawohl e M.Kretschmer, in un articolo del 2009, si sono resi conto dell’inconsistenza del concetto di proprietà intellettuale in Fichte, ignorando quanto avevo pubblicato nel 2010 e addirittura nel 2006. Non c’è, in casi come questi, malafede: frequentiamo cerchie intellettuali che s’intersecano solo occasionalmente.
Però, in un mondo accademico che si comporta ancora come se credesse nell’originalità romantica, può esserci un interesse inconfessato all’insularità. Se, contro il cosmopolitismo dell’uso pubblico della ragione, si recinta la cerchia delle opinioni rilevanti, escludendo chi non parla le lingue giuste, non conosce le persone giuste, non pubblica nelle riviste giuste, diventa possibile rivendicare la propria originalità senza timore di essere contraddetti, perché si è trasformato un infinito al di là del senso in un finito che si attribuisce senso da sé: il mondo delle idee non sta più in un luogo al di sopra del cielo ma nella piccola comunità umana a cui noi stessi apparteniamo. Questo è lo spirito dell’accademia dei morti viventi, che, in nome di una burocratica patente d’eccellenza, limita da sé la vita del pensiero: ubi solitudinem faciunt, novitatem appellant. Non è però quello di Platone, per il quale la ricerca non era fatta di etichette, ma – nel mondo al di sotto del cielo, in cui trascorriamo tutti noi – d’indigenza, di spossessamento e di confutazione, in un continuo cominciare da capo.
Danielle Allen, che pubblica ad accesso chiuso, si dice solita iniziare ormai le sue ricerche esclusivamente da fonti on-line, quindi – secondo lei – prevalentemente in inglese. Non possiamo ridurre questa giustificazione a una scusa, senza prima chiederci quanti studiosi sanno essere consapevoli dell‘infrastruttura in cui circola la loro ricerca e se ne assumono la responsabilità.
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