Il thrash è rinato quando il metal è morto creativamente. Ora che non ci sono più nuove tendenze da rincorrere col fiatone, i grandi del genere sono tornati a fare quello che sapevano fare meglio, non avendo particolari motivi per provare a fare altro. In pochi anni band che, non molto tempo prima, sembravano pressoché stecchite hanno tirato fuori roba come Worship Music, Dark Roots of Earth, Exhibit B. O The Electric Age. Le stesse band che avevano reagito all’espansione del death, all’esplosione del grunge e all’imporsi del nu metal tentando di aggiornare di conseguenza il proprio stile (all’epoca le case discografiche contavano ancora qualcosa) con risultati spesso maldestri. Era l’epoca dei vari Risk, Demonic, The Threat Is Real. Mossi da una caparbietà ormai proverbiale, gli Overkill, perso Gustafson, erano andati avanti con esperimenti anche piuttosto bizzarri (gli stacchi rammsteiniani di From the Underground and Below, per dirne una) ma non erano mai affondati nell’ignominia. Riascoltati oggi, dischi come l’hardcoreggiante The Killing Kind o Bloodletting, allo stesso tempo uno dei più coraggiosi e uno dei più buttati in caciara, offrono ancora qualche guizzo per quanto, alla fine, ti facciano ricordare perché li avevi sepolti nell’oblio.
Tuttavia, se avessero continuato a riciclarsi senza variazioni sul tema, avrebbe avuto molto meno senso e risonanza un Ironbound, il quarto con la coppia d’asce Linsk/Tailer, con le sue canzoni lunghe ed elaborate, memore dei tempi d’oro di The Years of Decay. Forse la cosa migliore dai tempi di Horrorscope. The green and the black e Bring me the night entrarono subito nella mia playlist da metro B. Fu The Electric Age, però, a far saltare il banco. Quasi tutti i pezzi erano fantastici. Scalzò Christ Illusion dalla top ten da palestra. Uno dei più bei dischi di over 50 degli ultimi tre o quattro anni.
Non mi ero approcciato quindi con eccessiva fiducia a White Devil Armory. Mi pareva troppo pretendere che azzeccassero il triplete. E infatti non è ai livelli dei due precedenti. Non è manco chissà quanto più fico di un ReliXIV o di un Killbox 13 (la differenza la fa soprattutto la produzione più moderna e pulita) ma è comunque un disco thrash come si deve, cattivo, livoroso, con i rallentamenti al momento giusto, il latrato incarognito di Bobby Blitz; ancora più frenetico e sparato del predecessore ma meno coinvolgente, meno memorabile. Mancano i ritornelli, che nel thrash ci vogliono. È come se, consci di essere in una fase ispirata, gli Overkill avessero inciso un album tanto per fare, sapendo che non sarebbe venuto male comunque. Magari un anno in più a raccogliere idee non sarebbe stato male, considerando che la prolificità non ha mai giocato a favore dei ragazzi in passato. Ma, come sempre, va bene lo stesso, dai.