di Maria Serra
Con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astensioni, il 29 novembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato l’ammissione della Palestina come “Stato non membro Osservatore Permanente” all’organizzazione: una richiesta di passaggio dallo status di “entità osservatrice” – riconosciuto in prima istanza all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel novembre del 1974 – a quello di “Stato osservatore” ardentemente portata avanti dal leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Abu Mazen, e che, nonostante le difficoltà che permangono, dà al popolo palestinese una nuova speranza di riconoscimento e che incoraggia la comunità internazionale ad intensificare gli sforzi nella soluzione dell’ormai secolare conflitto israelo-palestinese.
L’Europa e l’Italia - Il segno che qualcosa in questo senso stia infatti cambiando è dato dall’atteggiamento dell’Europa: benché sul tema resti profondamente divisa, questa ha mostrato un’apertura al problema (8 Paesi in più rispetto al 2011 hanno appoggiato la Risoluzione, Italia compresa; i contrari si sono ridotti da 5 ad 1, la Repubblica Ceca), quantunque la decisione di sostegno sia stata inevitabilmente dettata non solo dalla volontà di sostenere le forze moderate dopo la recente crisi nella Striscia di Gaza, ma anche da necessità economiche: basti ricordare, in tal senso, che proprio l’Italia ha con l’ANP progetti di cooperazione dal valore di 100 milioni di euro.
Una scelta, quella italiana, maturata probabilmente nelle ultime due settimane a seguito della Commissione mista Italia-Territori Palestinesi (concretizzatasi nella firma di 8 nuovi accordi di nei settori del turismo archeologico-culturale, dell’università e ricerca, della giustizia e del commercio), a margine della quale il Ministro degli Esteri palestinese Riyad Malki ha detto di aver parlato in modo “molto franco” con il Ministro Terzi circa le aspettative di riconoscimento all’ONU dell’ANP. Parole, insomma, che devono essere state particolarmente convincenti (soprattutto se si considera che da tempo si lavorava su una posizione di astensionismo) e che, d’altra parte, si inseriscono in un quadro di scelte strategiche: di fronte ad una Francia che, in linea con l’atteggiamento nei confronti della Libia e della Siria, con il proprio “si” ha strizzato ancora una volta l’occhio al mondo arabo foriero di opportunità di investimento, l’Italia ha scelto di non restare isolata nel Mediterraneo. C’è da dire, naturalmente, che, per non incrinare eccessivamente i rapporti con Israele, il nostro “si” è stato condizionato all’assicurazione – tuttavia non apertamente espressa – da parte dell’ANP di non rivolgersi alla Corte Penale Internazionale. Sulla scelta italiana, ad ogni modo, sarà lo stesso Ministro Terzi a riferire in Parlamento nei prossimi giorni, anche alla luce del fatto che l’Italia è stato l’unico Paese ad esprimere ufficialmente la propria intenzione di voto attraverso la Presidenza del Consiglio piuttosto che attraverso il Ministero degli Esteri. Si è trattato di un’opzione decisamente più europeista e mediterranea e, come è stata definita, di “rottura dell’atlatismo inconsapevole”, su cui Monti ha imperniato le relazioni italiane con l’esterno.
I problemi provengono dall’interno - Nonostante l’indubbio momento storico per il popolo palestinese e nonostante i privilegi che comporta essere uno “Stato Osservatore” (tra cui la possibilità di adire, appunto, alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia) e le responsabilità che ne derivano (ossia quella in materia di prevenzione del terrorismo, anche quello che ha origine nel proprio territorio), proprio tale supporto della comunità internazionale alle forze moderate – augurato non di meno dall’ex Primo Ministro israeliano Ehud Olmert – potrebbe essere la prima fonte di problemi futuri: infatti, se da un lato l’approvazione della Risoluzione significa sul piano strettamente interno un tendenziale riequilibrio dei rapporti di forza tra l’ANP e Hamas, uscito “vincente” da “Pillar of Defense”, dall’altro proprio Hamas potrebbe essere indotto a potenziare la propria compagine militare (le Brigate Ezzedine al-Qassam), a rafforzare i propri rapporti con le 13 formazioni combattenti islamiche attive a Gaza (tra cui la Jihad Islamica, il Fronte Popolare e il Fronte per la liberazione della Palestina e formazioni jihadiste di stampo salafita e qaedista quali, Saif al-Islam, al-Ansar e Humat al-Aqsa) attraverso cui ridimensionare i movimenti laici e moderati, ad intensificare lo scontro con Israele e a rendere ancora più fragile la convivenza tra le varie anime rappresentanti la causa palestinese.
L’aggressione subita da Hamas a Gaza legittima di fatto il governo eletto nella Striscia nel 2006 e rischia di rendere sempre più ostica la riconciliazione con Fatah, più incline al compromesso e a cui sta sostanzialmente bene l’attuale estensione geografica della Palestina. Una distanza politica, quella tra le due fazioni, che, nonostante i tentativi di dialogo tra il 2011 e il 2012 e nonostante la Risoluzione muova i primi passi verso un riconoscimento dello Stato palestinese, rischia dunque di diventare più profonda e di costituire un serio ostacolo alla creazione di uno Stato realmente unitario e al prosieguo dei negoziati di pace con Israele.
Il futuro dei negoziati - Sulle future trattative di pace sono stati piuttosto chiari gli Stati Uniti, che attraverso l’Ambasciatore Susan Rice hanno definito la Risoluzione “controproducente” ai fini del raggiungimento di “due Stati per due popoli”: la soluzione, di fatti, non dovrà passare per New York, ma da Gerusalemme e Ramallah con l’avvio di negoziati diretti. Dello stesso avviso è, naturalmente, Israele, che in realtà avrebbe tutto da guadagnare nel trattare con Abu Mazen e con le fazioni moderate, mettendo così in un angolo gli estremismi da cui si sente minacciato e dando così una risposta pienamente politica all’Iran. Tuttavia, l’atteggiamento israeliano nei confronti della Palestina non solo non cambierà – come sostenuto dal Premier Netanyahu –, ma, anzi, potrebbe conoscere una nuova fase critica, soprattutto con l’approssimarsi delle elezioni del prossimo 22 gennaio.
Nonostante fosse una delle condizioni per la ripresa dei negoziati, infatti, nemmeno 24 ore dopo l’approvazione della Risoluzione il governo israeliano ha autorizzato la costruzione di 3000 nuovi alloggi in Cisgiordania, nel grande insediamento di Maleh Adumin, e a Gerusalemme est. Si tratta della cosiddetta zona “E1”, un territorio attualmente disabitato, che mette in collegamento il Nord e il Sud della Cisgiordania e che, come promesso in passato da Ariel Sharon e da Olmert agli Stati Uniti, non sarebbe stato oggetto di insediamenti. Occupata tale area, infatti, uno Stato palestinese unito sarebbe pressoché impossibile. Proprio gli USA hanno criticato duramente questa scelta, dichiarando che l’Amministrazione Obama “ha detto molto chiaramente a Israele che queste attività fanno arretrare i negoziati di pace”, e confermando la tensione esistente tra i due Paesi. Eppure anche Moshe Feiglin, candidato del Likud alle prossime consultazioni ed esponente del movimento dei coloni, propone l’immediata estensione della sovranità israeliana su tutta la Cisgiordania, l’assunzione del controllo esclusivo di Israele sulla Spianata della Moschee e, infine, la fuoriuscita di Israele dall’Onu. Atteggiamento, dunque, che smentisce le parole più benevole di Netanyahu, secondo cui “la mano di Israele resta tesa verso la pace”. Una speranza per la ripresa dei negoziati potrebbe risiedere proprio nelle capacità di persuasione dell’ex Premier Olmert, ancora indeciso se correre in prima persona alle prossime elezioni: pur non essendo un pacifista (guidò l’offensiva nel sud del Libano e approvò l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza nel 2008), egli fu colui che, prima di essere travolto dallo scandalo della corruzione, sempre nel 2008 aveva proposto un piano di pace che i Palestinesi, come fecero il 29 novembre 1947, rifiutarono categoricamente. Olmert ha infatti dichiarato che non ci sono ragioni per cui Israele si debba opporre a nuovi piani di pace e che bisogna “dare una mano per incoraggiare le forze moderate”.
Il quadro regionale - In ogni caso il governo di Netanyahu, soprattutto se riconfermato, non potrà non pesare in futuro le proprie azioni, non solo perché, nonostante le rassicurazioni dei governi, è sempre più “abbandonato” dai Paesi europei – probabilmente anch’essi sempre meno convinti delle attuali posizioni di Tel Aviv -, e non solo per un possibile rafforzamento dell’asse Iran khomeinista-Hezbollah-Hamas, ma anche per il sempre più crescente ruolo dell’Egitto nel contesto regionale. L’accordo di tregua al termine di “Pilastro di Sicurezza” è stato mediato anche, e soprattutto, dal Cairo, che si è così posto come garante della stabilità nell’area e a cui sia Israele sia Hamas dovranno render conto qualora il cessate il fuoco venisse violato. Mursi sa bene quanto sia importante la difesa della causa palestinese per conquistare consensi e credibilità non solo all’interno del proprio popolo, ma anche all’interno del panorama arabo. Il presidente egiziano sa altrettanto bene che, nonostante i problemi interni relativi all’approvazione della nuova Carta costituzionale, il recente successo diplomatico può essere il trampolino di lancio per il ritorno del Cairo sulla scena mediorientale, come nella tradizione di Nasser e Sadat. Così anche Hamas, movimento di resistenza che nasce da una costola della Fratellanza Musulmana egiziana, vede nell’Egitto un punto riferimento per appianare le proprie divisioni interne (il 4 maggio 2011 il Primo Ministro Haniyeh e la guida spirituale Meshaal hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione) e, abbandonata la Siria, per rafforzare il proprio ruolo nel contesto regionale. Tutto questo passando attraverso la strategica area del Sinai, la cui sicurezza – eventualmente con il sostegno di Hamas – resta una delle priorità dell’Egitto.
Ma gli amici di Hamas non si esauriscono alla terra dei Faraoni: significativa è, infatti, la visita dello scorso 23 ottobre a Gaza da parte dell’emiro del Qatar di Hamad bin Khalifa al-Thani, giunto nella Striscia per inaugurare progetti di ricostruzione dal valore di 400 milioni di dollari. Anche Israele ha accusato Haniyeh di lavorare sotto traccia alla creazione di uno Stato palestinese distaccato dal controllo dell’ANP e lo stesso Abu Mazen si è augurato che la visita qatarina non mini gli sforzi per la ricostruzione dell’unità palestinese.
In questo contesto non può, infine, non tenersi in considerazione anche la Turchia – che fra tutti i Paesi del mondo musulmano aveva più da guadagnare dalla cosiddetta “Primavera araba”, soprattutto in termini di leadership regionale –, la quale tenta, con difficoltà, di tenere il passo del nuovo Egitto: il Ministro degli Esteri Davutoğlu, dimenticandosi forse per un attimo il dramma curdo, ha accusato il mondo di aver “taciuto per 65 anni sulle piaghe dei palestinesi“, ribadendo l’impegno turco per la causa in questione finché “non avranno uno Stato con Gerusalemme capitale”. Così durante la recente crisi di Gaza, il governo di Erdoğan si è duramente espresso nei confronti di Israele, i rapporti con il quale sono tesi dal 2007 (a causa prima dell’attacco non preannunciato al reattore siriano di Deir Ez-Zor e successivamente dell’incidente della Freedom Flotilla nelle acque internazionali del Mediterraneo), definendolo uno “Stato terrorista”. Eppure, il sostanziale fallimento della Zero problems policy toward neighbours, ad iniziare dai rapporti con la Siria, costringerà Ankara a ridimensionare il proprio raggio di azione e a concentrarsi maggiormente su questioni che le competono di più (la questione curda, appunto, e le tensioni nel Caucaso Meridionale).
Ma alla luce di tutto ciò, Davutoğlu ha ragione quando dice una cosa: a 65 anni di distanza dalla Risoluzione 181, la questione-Palestina è ancora, e più che mai, aperta.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)