Dopo tutte le parole che ho speso contro prostituzioni intellettuali, mafie giornalistiche, letterarie conventicole, recensire il libro di un Amico mi crea sempre qualche remora di tipo morale. Però con Paolo Zardi (che guarda caso non è Amico di vecchia data o di assidua frequentazione - ancora mai incontrati né telefonati - ma lo è per averlo scoperto fratello nella scrittura) il problema non si pone: questo ragazzo è oggettivamente troppo bravo. E chi ha letto i racconti del suo splendido esordio, Antropometria (Neo Edizioni), lo sa già.
Paolo, tramite il dono che ha ricevuto e la passione con cui lo mette a frutto, sembra essere qui per ricordarci una verità che in troppi vorrebbero calpestare e farci dimenticare: che la Narrativa è un'Arte, che lo Scrittore è, grazie al cielo (o grazie al cazzo, comunque Grazie!), un Artista. Dall'intelligenza acuta e penetrante. Ma invece di andare avanti a incensare in astratto le sue doti e il suo Talento, eccone una prova inconfutabile, scelta quasi a caso fra decine di pari o superiore livello (è un libro che mi sono goduto, ma alcune pagine mi hanno addirittura deliziato):
"Dal tetto bitumato sbucavano, equamente distanziate, le enormi ventole dei condizionatori, che d'estate mantenevano a una temperatura adeguata le brulicanti tonnellate di carne umana al lavoro là sotto. Era un luogo reale, quello che vedeva? C'entrava qualcosa con la natura umana? Erano trascorsi sì e no un centinaio di secoli da quando l'homo sapiens aveva iniziato a differenziarsi dalle scimmie. Con quali mezzi era possibile comprendere una simile disposizione delle cose? Ormai da anni, cioè migliaia di giorni, la vita della maggior parte dei suoi colleghi si svolgeva dentro a quel triangolo: lavoro, cibo, shopping. I soldi che guadagnavano da una parte venivano spesi sul lato opposto della strada. Mangiavano per poter guadagnare i soldi che servivano per mangiare che servivano... Alle cinque del pomeriggio la piccola fabbrica di componenti per macchine a controllo numerico apriva le porte e restituiva al mondo i suoi automi organici che con le loro utilitarie inorganiche sarebbero tornati nei loro appartamenti semiorganici, dalle loro famigliole tutte intente a formare, con pazienza e amore, nuovi automi: mentre uscivano da là, ridevano e scherzavano. Ma la notte, cosa sognavano quelle macchine viventi?"
[...]
"Dall'alto, il triangolo sembrava un formicaio dotato di vita propria, il cui scopo non era la felicità delle singole formiche, ma la perpetuazione della sua stessa esistenza. Generazioni di operosi insetti continuavano ad emergere dalle uova deposte dalle generazioni precedenti, a prodigarsi per compiere il loro dovere, e alla fine dello sforzo, a sparire, inghiottiti da un nulla al quale il formicaio nella sua interezza pareva immune. Non era chiaro neanche chi avesse messo in moto quel meccanismo.
Tra quelle costruzioni Baganis vide passare la macchina di Paola, che guidava con una mano sola (l'altra sembrava impegnata ad armeggiare con la boccetta di Amuchina). Vide lo scintillio del rosario fosforescente che penzolava come un amuleto dallo specchietto retrovisore. Quando l'avevano fatto in macchina, qualche settimana prima, come due ventenni (ma facevano più di ottant'anni in due) il piccolo Cristo era stato costretto a guardare, smarrito, privo anche della possibilità di coprirsi gli occhi con le mani inchiodate, il culo peloso di Baganis che andava avanti e indietro, imprigionato tra le gambe schiaccianoci di una donna sposata."
Più avanti ne ho trovate a bizzeffe, di pagine anche migliori di questa, ma non è che possa mettermi a ricopiarle tutte. Vi rovinerei la degustazione. E poi credo sia contro la legge... Che altro posso dirvi? Che è un libro a cui si vuole bene, perché si resta incantati e ammirati davanti alla maestria dell'autore nel conferire profondità e dignità psicologica a qualsiasi personaggio, a cominciare dal protagonista, Baganis, che finirà con l'assumere nel vostro cuore inaspettati contorni di eroe, pur essendo l'antieroe per eccellenza (al punto che in certi momenti fa quasi ribrezzo). Che le descrizioni sanno essere al tempo stesso esaustive e sintetiche, poche pennellate per vividi quadri. Che anche nelle parti più strazianti (c'è un bambino di otto anni che muore) la voce sa essere vera, onesta, nuova, mai patetica, mai ricattatoria. E che non mancano le spruzzate di cinismo e di lucida ironia, e i lampi comici, a creare quel contrasto che costituisce poi il nocciolo stesso dell'arte di scrivere, arte che oggi pochi, assai pochi, possiedono e padroneggiano.
In un panorama italico autoconsegnatosi (per masochistica scelta commercial-filosofica) alla Serie C dello sciatto, del banale, del ripetitivo, del non originale, dell'imitazionale, alla Serie D del livellamento in basso e dell'omologazione copincollereccia, e alla Serie Z meritofobica della fogna ideologica e delle velleità veteropoliticoidi (o religioidi da catechismo spicciolo), col risultato di produrre la superflua e sovraffollata (di)scarica diarroica del déjà vu, déjà lu, déjà vomi (già visto, già letto, già vomitato) Paolo Zardi (iconoclasta in questo senso? perché spacca la brutta icona del Brutto, e sputa sopra i suoi brutti cocci?) con la sua scrittura Alta (ma, si badi bene, tutt'altro che stucchevolmente "vecchia", e tutt'altro che sterilmente virtuosistica o fine a se stessa) si pone in meravigliosa, benedetta controtendenza. A tal punto da sembrare un americano tradotto. Ma tradotto divinamente bene.
Non fatemi incazzare.
Paolo Zardi. La felicità esiste.
Sì: anche la felicità di leggere un bel Romanzo.
Parola di Scriba.