Papa Francesco: la riforma della curia e maggiore collegialità, si, no, forse....
Il 13 aprile scorso, ad un mese dalla elezione, Papa Francesco ha annunciato l’intenzione di nominare un direttorio di 8 uomini con un compito duplice: da una parte consigliarlo sul governo della Chiesa e dall’altra studiare una possibile riforma della curia romana.
Tra i prescelti vi sono alcune autentiche stelle degli ultimi conclavi: da Oscar Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa a Sean O’Malley, arcivescovo di Boston.
Il giorno dopo la dichiarazione, lo storico della Chiesa, Alberto Melloni, in un articolo sul Corriere della Sera, ha scritto che la decisione del Papa sarebbe la più importante degli ultimi 10 secoli e degli ultimi 50 anni dal Concilio Vaticano II.
La scelta di Bergoglio sembrerebbe la risposta a quei cardinali che, nelle congregazioni generali precedenti il conclave, avevano affermato più volte la necessità di una maggiore collegialità nel governo della Chiesa e che, con ogni probabilità, sono stati suoi grandi elettori.
Se attuata sarebbe una innovazione di prima grandezza.
Un gruppo di consiglieri provenienti da ogni parte del mondo potrebbe contribuire in modo decisivo a ridurre lo strapotere della curia romana nel definire gli indirizzi generali della Chiesa cattolica.
Un possibile indizio in tal senso potrebbe essere dato il fatto che nessuno degli otto porporati ha mai ricoperto alcun incarico curiale: solo monsignor Giuseppe Bertello, unico italiano, ha avuto maggiori contatti con il Vaticano, avendovi ricoperto l’incarico di governatore.
La decisione di Francesco potrebbe quindi portare aria nuova nei corridoi vaticani, incrostati da decenni di intrighi e misteri: un coacervo di interessi poco limpidi e troppo concentrati su una curia autoreferenziale, raramente attenta ai fermenti del mondo cattolico delle periferie del mondo.
Una maggiore condivisione delle scelte del governo della Chiesa era stata auspicata dal Concilio Vaticano II, concluso nel 1965 ed era stata solo parzialmente implementata da Paolo VI e quasi del tutto trascurata da Giovanni Paolo II.
La scelta del pontefice potrebbe interpretarsi anche come la volontà di un ritorno alla Chiesa dei primi secoli, in cui il Papa era eletto dal popolo e non godeva di una posizione di assoluta supremazia rispetto agli altri rappresentanti delle Chiese locali.
Secondo alcuni osservatori le nomine di Bergoglio sarebbero solo un tentativo di rispondere agli scandali di Vatileaks: in sostanza il nuovo papa avrebbe lanciato solo una operazione di facciata, una mossa volta a ripulire la Chiesa da una patina di sporcizia, fatta di carrierismo, inefficienza e corruzione che trova nella burocrazia centralizzata della curia romana la sua principale fonte.
Se così fosse, non si comprenderebbe come mai, dopo un iniziale smarrimento e silenzio, le forze interne al Vaticano, contrarie ad ogni mutamento, si siano fatte sentire con una certa veemenza.
Ad esempio, in una intervista all’Osservatore Romano del 30 aprile scorso, l’arcivescovo Giovanni Becciu, segretario di stato responsabile per gli affari interni della curia, ha provato a sminuire la portata delle scelte di Bergoglio.
Secondo l’alto prelato, il gruppo di consiglieri e il loro lavoro di riforma della costituzione apostolica “Pastor Bonus” sulla curia romana, non avrebbe affatto l’effetto dirompente che molti pensano.
Non è possibile fare alcuna ipotesi sulla futura struttura della Chiesa cattolica e soprattutto, il ruolo degli otto porporati non sarebbe altro che quello di semplici consiglieri del Papa.
Non vi sarebbe alcuna possibilità di cogestione del governo della cattolicità e quindi il primato assoluto del papato non sarebbe per nulla messo in dubbio. In effetti, come ha scritto Sandro Magister sull’Espresso, gli otto porporati sono stati scelti direttamente dal papa e non sono espressione di una designazione più ampia: in breve collegialità si, democrazia no.
Tuttavia, non può essere sminuito il fatto che Papa Francesco senta il bisogno di condividere con altri, provenienti dalle parti più disparate del mondo e in grado di riportargli il polso delle periferie della terra, le scelte inerenti il governo della Chiesa.
Una impostazione ormai irrinunciabile, tenuto conto delle sempre maggiori frizioni tra i vari episcopati mondiali e il modello verticistico del papato, scarsamente permeabile alle esigenze delle chiese locali.
Ad influire sulla scelta di Bergoglio ha certamente avuto un ruolo di rilievo anche l’organizzazione su cui si fonda l’ordine dei gesuiti, da cui lo stesso Francesco proviene.
Come ricorda Aldo Giannuli nel suo ultimo libro, la Compagnia di Gesù è strutturata secondo un modello che unisce in sé le caratteristiche di un sistema monarchico con quelle di una struttura più democratica.
Il preposito generale, massima autorità dei gesuiti, il cd. “papa nero”, deve attenersi a quanto stabilito da un gruppo di assistenti, espressione di gruppi di province territoriali diverse per lingua e nazionalità.
La decisione di Francesco di riformare la Curia e la natura stessa del papato non sarà facile (Benedetto XVI non ci è riuscito) e incontrerà molte difficoltà, ostacoli e ritrosie proprio all’interno di quel mondo che vorrebbe cambiare.
E’ necessario augurarsi che il pontefice vi riesca e che la recente scelta di confermare Angelo Bagnasco a presidente della Conferenza Episcopale Italiana sia solo un riposizionamento tattico, in attesa di continuare, con rinnovato vigore, una offensiva contro i mali della Chiesa.
Se non ci riuscisse nemmeno il primo papa con il nome di San Francesco, chi altri potrà riuscirci?
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