Da un po’ di tempo a questa parte non si fa altro che discutere delle cosiddette “quote rosa”.
L’ultimo capitolo di questo “romanzo popolare” si è chiuso ieri alla Camera, dove sono stati bocciati (da parte di quelli che hanno approfittato del riparo loro consentito dal voto segreto) tutti gli emendamenti che puntavano a far sì che la nuova legge elettorale contenesse precise regole per garantire una significativa presenza femminile nelle istituzioni.
Al di là però dell’esito del voto parlamentare, trovo che l’idea secondo la quale alle donne debba essere garantito “per legge” un numero minimo di rappresentanza sia qualcosa di profondamente sbagliato.
E le prime a capirlo dovrebbero essere proprio le donne, a cominciare da quelle ieri inutilmente e (ridicolmente) vestite di bianco.
Quello che dovrebbe interessare (non solo alle donne) è fare in modo che in Parlamento non ci siano più personaggi da macchietta (o da galera), lì soltanto perché cooptati, e non di aggiungere a questo squallido panorama il numero delle donne.
Trovo che se c’è una battaglia da fare in questo Paese (e in modo serio), questa sia quella che si ponga due precisi obiettivi: quello di pretendere che la selezione dei candidati (fra i quali chiedere agli elettori di esercitare il loro diritto di scegliere) venga effettuata sulla base del loro curriculum e quello d’impedire qualsiasi tipo di discriminazione nella valutazione del curriculum dei candidati.
Quello che dovrebbe interessare non è che in Parlamento ci siano tot uomini e tot donne, ma che a decidere sulle sorti del Paese ci siano le persone più competenti, quelle più meritevoli, e questo indipendentemente dal loro sesso.
E l’interesse a favorire l’ascesa delle persone più competenti non andrebbe limitato ai parlamentari, ma dovrebbe essere esteso a tutti i posti di responsabilità dell’amministrazione pubblica di questo Paese.
L’equivoco sulle “quote rosa” fa il paio con quello sul significato delle cosiddette “pari opportunità”.
A questo proposito, andrebbe notato che l’espressione “pari opportunità” significa garantire che vi sia effettiva parità di condizioni di partenza e non, come invece si è soliti credere, garantire parità delle condizioni di arrivo.
Nel tanto richiamato art. 51 della Costituzione c’è scritto: Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
Scrivere “possono accedere” vuol dire “devono potere accedere”, cosa ben diversa da “devono accedere”; significa che a tutti i cittadini deve essere garantita la possibilità di accedere, con la sola discriminante del possesso di determinati requisiti.
Un Paese serio dovrebbe porsi come obiettivo quello di promuovere le competenze, contro ogni genere di discriminazione, a cominciare da quella sui requisiti.
L’obiettivo al quale puntare è quello di garantire che il possesso dei requisiti, oltre che condizione necessaria, sia anche sufficiente (a differenza di quello che avviene).
Supponiamo ora che ci sia l’esigenza di ricoprire 100 posti di “responsabile” in un’amministrazione dello Stato e che a questo fine venga bandito un apposito concorso, al quale partecipino 10.000 persone.
Supponiamo che nei primi 100 posti in classifica ci siano 80 donne e 20 uomini.
In presenza di una legge che obblighi a dividere “a metà” quei 100 posti, in base alla “parità di genere”, ad essere scelti sarebbero i 50 uomini meglio classificati e le 50 donne meglio classificate (si noti che 30 donne verrebbero così “sacrificate”, e questo proprio in nome di una legge fatta per tutelare i loro interessi).
Supponiamo adesso che quei 100 posti vengano invece assegnati a chi si piazza nei primi 100 posti (a prescindere dal sesso), in virtù di una legge che garantisca l’interesse generale, che favorisca il merito, la competenza.
In questo caso anche quelle 30 donne vedrebbero riconosciuti i propri meriti.
Quanta ridicola retorica, quanta ridicola ideologia, quanta ridicola demagogia!
Che pena!