di Massimiliano Sardina
Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro,
anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo
del ventre materno.
Italo Calvino
Edito da Laterza La lingua batte dove il dente duole riporta una conversazione tra lo scrittore siciliano Andrea Camilleri (nato a Porto Empedocle) e il grande studioso di linguistica nonché ex ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro (originario di Torre Annunziata); la puntualizzazione circa le rispettive aree di provenienza non è didascalica, anzi ci introduce fin da subito sull’oggetto del contendere: lingua o dialetto? È su questo territorio che sono chiamati a fronteggiarsi (e quindi a pronunciarsi) i due vecchi, testimoni loro malgrado di una lingua che si è trasformata e che si sta trasformando e di un dialetto che, contro ogni previsione e contro ogni pasoliniana profezia, non vuol proprio saperne di estinguersi. Ma che cos’è una lingua? E che cosa sono i dialetti? Per tentare di rispondere a questa domanda De Mauro cita un passo di Libera nos a Malo di Luigi Meneghello: <<Nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua.>>
Camilleri definisce il dialetto “lingua degli affetti”, confidenziale, familiare, intima, e si riallaccia a Pirandello per il quale la parola dialettale esprimeva “la cosa stessa” nella sua natura intrinseca, a differenza della lingua che di quella stessa cosa si limita a restituirne il solo concetto; Camilleri si spinge oltre e, nella sua attività di romanziere, dichiara che spesso non riesce a trovare l’equivalente nella lingua italiana di certe parole dialettali che invece <> Idioma emozionale, codice comunicativo arcaico e viscerale, al dialetto si ascrivono però sia la schiettezza sia l’indecifrabilità (c’è dialetto e dialetto, e quello stretto quanto a incomprensibilità tiene talvolta banco anche al linguaggio nozionistico e specialistico più erudito); quello che dialetto e lingua hanno invece in comune è il continuo processo di trasformazione e adattamento, all’unisono con quella fissità apparentemente immutabile. Certi dialetti tendono a italianizzarsi, talvolta a semplificarsi in sommarie inflessioni, ad attenuarsi, ad assopirsi per poi tornare tonanti e persino più coloriti. Duri a morire perché connaturati da secoli ai memi del linguaggio in aree territoriali circoscritte generazione dopo generazione. Scrive Cesare Pavese nella poesia I mari del Sud: <<Non parla italiano / ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre / di questo stesso colle, è scabro tanto / che vent’anni di idiomi e di oceani diversi / non gliel’hanno scalfito.>> La previsione di Pasolini di una lingua italiana tecnologica che sarebbe dovuta sorgere sulle macerie dei dialetti non s’è verificata (almeno per il momento, e sì che siamo in piena era di condivisione plurilinguistica digitale).
Dal dopoguerra a oggi la televisione ha certo contribuito alla diffusione dell’italiano (contrastando tanto analfabetismo, che peraltro ancora oggi è molto più diffuso di quanto si pensi) ma i dialetti hanno continuato la loro inarrestabile marcia su una sorta di livello di comunicazione parallelo, intrafamiliare e extrafamiliare (e a questo riguardo De Mauro e Camilleri riferiscono molti aneddoti curiosi e significativi). <<Se l’albero è la lingua, – scrive Camilleri, che non vuole essere definito scrittore siciliano ma italiano poiché a suo dire i dialetti vanno intesi unicamente come compresi nella lingua ufficiale di una nazione – i dialetti sono stati nel tempo la linfa di questo albero. Io ho scelto di ingrossare questa vena del mio albero della lingua italiana col dialetto, e penso che la perdita dei dialetti sia un danno anche per l’albero.>> De Mauro, dal canto suo, assegna ai dialetti un vero e proprio statuto di lingue, sistemi linguistici autonomi con regole grammaticali proprie, contrariamente a quella tradizione culturale di vecchia scuola che intendeva il dialetto solo come un modo sbagliato (o comunque non corretto) di parlare in italiano. <<In Italia abbiamo tante lingue.>>: un’affermazione ben precisa quella di De Mauro, non condivisa da altri linguisti. Ogni dialetto o idioma subalterno, come insegna Saussure, è suscettibile nel tempo a una trasformazione in lingua (basti pensare al caso del dialetto fiorentino, base linguistica di quella che nel XVI secolo comincia a prendere forma di lingua italiana). Il dialetto ha la sua tridimensionalità ma anche i suoi limiti, ed è proprio su questi limiti che trionfa la lingua; De Mauro spiega questo concetto con la seguente osservazione: <<Se devo scrivere un libro di geometria, di filosofia o di storia ho bisogno necessariamente di una lingua.>> La lingua batte dove il dente duole si sofferma diffusamente sulle origini storico antropologiche dell’italiano e ne ricostruisce la straordinaria e misteriosa genesi passando per Dante, Petrarca, Boccaccio fino al Manzoni inventore.La lingua (e specie quella italiana, che brilla forse più di altre per colore e ricchezza espressiva) non è mai, spiega De Mauro, frutto di una costruzione artificiosa, né men che mai può prodursi per effetto di una volontà individuale; per “fare l’italiano” è occorsa “una coralità di generazioni convergenti”. La conversazione tra De Mauro e Camilleri si sofferma inoltre sull’ossessione antidialettale della scuola di un tempo, quando l’istruzione impartita mirava innanzitutto a debellare qualsivoglia vocabolo o inflessione dialettale, affinché si pervenisse all’italiano grammaticalmente corretto; a questo proposito Camilleri rievoca il divertente aneddoto dell’àccipe (legnetto), circa le punizioni inflitte dai preti agli scolari che si lasciavano sfuggire una parola in dialetto. Tutto il libro procede per aneddoti, ricordi e riflessioni dove protagoniste son le lingue dell’italiano, non una lingua sola. Dal dialogo, a tratti appassionato, tra il romanziere e il linguista ad emergere è in primo luogo l’amore e il rispetto per la Lingua nostra, e così per il patrimonio inestimabile dei dialetti che, significativamente, De Mauro definisce: <<una vera e propria riserva di autenticità.>> Se il dialetto, per sopravvivere, deve guardarsi dall’italiano, vero è anche che l’italiano per preservare la sua purezza deve continuamente schivare la minaccia viepiù massiccia degli anglismi.De Mauro e Camilleri, l’uno da linguista e l’altro da scrittore, difendono l’identità e l’integrità della lingua italiana, spesso esposta al ridicolo da certe scelte terminologiche operate dai media o dalle istituzioni (pensiamo a parole come “spending review” o l’odiatissima “spread” che potremmo tranquillamente sostituire, con buona pace di tutti, con “revisione della spesa pubblica” e “differenziale”). L’utilizzo ingiustificato di anglismi è un campanello d’allarme e dovrebbe far riflettere; De Mauro pone significativamente la seguente domanda: <> e aggiunge <> Certo le lingue vivono di contaminazioni, ma l’uso indiscriminato di termini stranieri produce a lungo andare ferite insanabili sul ventre indifeso della lingua madre. Avverte Camilleri: <> Gli attacchi esterni purtroppo non sono i soli, e una lingua deve imparare anche a difendersi da se stessa. Le ultime battute della conversazione tra il linguista e lo scrittore vertono proprio su questo, sul cattivo uso dell’italiano (dalle storture grammaticali o di significato all’abominio paralinguistico del burocratese, fino all’impiego artificioso e stucchevole di terminologie desuete, obsolete o incomprensibili); la lingua è viva, pulsante, anzi urlante verrebbe da dire, mutevole, suscettibile di vibrazioni imprevedibili ma anche un’integrità intrinseca, una struttura inviolabile che va tutelata, salvaguardata e riconfermata giorno per giorno sia nel linguaggio verbale e colloquiale sia in quello scritto (un compito di cui dovrebbero farsi carico soprattutto le istituzioni, De Mauro lo sottolinea a più riprese), e per usare una famosa espressione di Giacomo Devoto: <responsabile della lingua.>>
I toni si scaldano quando la conversazione prende a indagare il rapporto tormentato tra lingua e politica, e qui la condanna al berlusconismo si fa corale (e più in generale alla calcolata ambiguità della “neolingua del potere” che, specie nell’ultimo ventennio, ha contribuito non poco ad abbassare il livello culturale del paese). Su Berlusconi Camilleri non usa mezzi termini: <<In effetti la lingua di Berlusconi rispecchia l’ambiguità del personaggio, è la lingua propria del personaggio Berlusconi. Non è un caso che sia stato, tra i presidenti del Consiglio, quello che più di tutti ha adoperato la frase “sono stato frainteso”. Ma la lingua italiana, quando è bene usata, non è affatto equivoca, è una lingua di cose, concreta, estremamente concreta.>> E il politichese? Che lingua è?, o meglio, in che rapporto è con quella lingua che pure l’ha originato? Quando questa lingua viene utilizzata con malizia, sostiene De Mauro, <<funziona in maniera simile a una forma di dialetto, o meglio a una specie di gergo, che permette di fare un discorso senza dire nulla, e che perciò stesso riesce a neutralizzare la questione che finge di affrontare.>> E va da sé che il problema non è la lingua quanto l’uso che se ne può fare.
Lingue e dialetti battono, oggi più che mai, su un dente che duole dolorosamente. Un’analisi più approfondita e impietosa rivela che il problema non è tanto la purezza della lingua o la conservazione del dialetto quanto piuttosto il substrato culturale (umano, sociale, antropologico, identitario) sul quale poggiano e si propagano. Molti dialetti, avverte De Mauro, sono ormai scissi dall’ordito originario (la terra, la campagna, il mestiere, le radici) e sopravvivono su un livello più superficiale; allo stesso modo la lingua italiana se non è lautamente corroborata (dalla letteratura, dall’arte, dalla scienza…) rischia di ridursi a ben poca cosa. È davvero esigua la percentuale di italiani che si nutre di cultura, e questo impoverisce la lingua, la riduce a un numero limitatissimo di parole, la zittisce, la costringe in un guscio fonico vuoto e povero di contenuti. La lingua batte dove il dente duole si chiude però con un messaggio di speranza, diciamo così, tutta riposta nelle lingue preziose portate qui in Italia dalle ondate di migranti, <<…parole nuove e diverse che diventeranno parole nostre.>> auspica Camilleri, ospitale, accogliente, come ogni buon siciliano.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 17 – Dicembre 2013
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