Pubblicato da robertoplevano su aprile 29, 2012
di Roberto Plevano
La politica. La politica. Mah. Non so da quanti anni evito, sgattaiolando via come un furetto, qualsiasi discussione di e sulla politica. Più o meno dal periodo in cui non ho più visto nulla, nell’offerta politica del mio paese, almeno remotamente congruente con la mia sensibilità, i miei desideri, le mie idee, le mie aspirazioni, le speranze per me e per i miei figli.
Dovessi pensare a un partito, a un raggruppamento a cui affidare il voto, me ne viene in mente solo uno. Eccolo: il Partito della Costituzione Italiana, Costituzione che da sola è un impegnativo programma di governo a breve, medio, lungo periodo. Non c’è davvero bisogno di aggiungere altro. La Costituzione però è stata, senza tema di smentite, la legge più disattesa della storia dell’Italia repubblicana. E questo partito non si può votare, perché non c’è. Ci dovrebbe essere, ma non c’è. Qualcuno dovrebbe fondarlo.
A questo pensavo mentre scorrevo l’articolo di un professore di economia in un’Università americana, la Washington University di St. Louis, Michele Boldrin: Per tornare a crescere, rivoltare lo stato come un calzino, pubblicato con una certa enfasi il 17 aprile sul sito dell’associazione Italia Futura.
Michele Boldrin cura un blog personale sul sito del Fatto Quotidiano. Si occupa di cicli economici, innovazione, banche e moneta. È un acceso critico di ogni posizione monopolistico e non ha mai dato credito alla statura intellettuale e competenza di Tremonti come economista, ritenendolo, giustamente, un bluff.
L’articolo parla di economia, della crescita che non c’è, di Stato, di Italia. La parola Costituzione non compare. Così come sono assenti le parole cultura, istruzione, scuola, università, ricerca, sanità, trasporti (quest’ultima voce sorprendentemente). E sono assenti anche le parole equità, giustizia (vi è l’espressione “una giustizia semplice, trasparente e certa” ma si riferisce al sistema giudiziario, non al valore), rispetto, diritti, consenso, democrazia.
E di che parla allora, questo articolo?
Italia Futura nasce nel 2009 come una sorta di associazione di imprenditori (nella variante giovani imprenditori), professionisti e docenti universitari (credo che più di qualcuno abbia usato l’espressione think tank, che può significare carrarmato, suppongo qui in un senso antifrastico). I fondatori sono Luca Cordero di Montezemolo, Corrado Passera e Andrea Riccardi. Sebbene l’associazione abbia più volte dato indicazioni di costituirsi come partito politico, dandosi una struttura territoriale, a tutt’oggi Italia Futura non si è discostata dalla sua originaria identità di “pensatoio”, saldamente ancorato alle coordinate del pensiero liberaldemocratico. Come tale ha continuato con convegni e incontri, presso sedi quali hotel Sheraton e Four Seasons (il nome inglese, per un associazione che si chiama Italia Futura, pare un’attrazione irresistibile), ha assistito alle traversie, chiamiamole così, degli ultimi due anni del governo del cosiddetto centrodestra, e come tale ha salutato l’avvento del governo Monti, di cui Passera e Riccardi fanno parte. Il futuro, chi lo sa, potrà portare una sorta di comitato elettorale, una lista civica nazionale, un partito leggero, intellettuali, tecnici, professionisti, immancabilmente imprenditori (giovani, ça va sans dire). Insomma, molto tempo fa questa associazione sarebbe stata considerata, probabilmente in maniera impecisa, un club riservato ad alcuni membri della razza padrona.
Oggi… oggi magari si parla di incontro di protagonisti della vita pubblica italiana attorno a un ex-presidente di Confindustria ed esponenti del mondo dell’università, della cultura, delle professioni, dell’economia e dell’impresa (sempre nella variante, ormai costante, di giovane imprenditoria), che è locuzione che dice comunque poco. Sia quel che sia, a me pare che IF si presenti oggi come l’oggetto quanto più prossimo alle idee e agli interessi di una parte significativa (e certamente non la peggiore) della élite economica e intellettuale italiana, quella a cui piacerebbe per l’Italia della bellezza e dello stile un futuro fatto di forza economica tedesca, finanza inglese, savoir-vivre e insouciance francese. Desiderata, appunto.
Tornando a Boldrin e al suo scritto, la tesi sostenuta è piuttosto, e purtroppo, semplice e semplicistica.
L’Italia ha un enorme bisogno di crescita economica e non si sta facendo nulla, da tre decenni almeno, per favorirla. Anzi…
Come si esce da questa condizione di declino?
Partire dai produttori e dalla necessità di riunificarli, al di là di antiche ed artificiali divisioni ideologiche.
Qui il discorso rimane, a dir poco, un pelo vago. L’impressione è che Boldrin non intenda suggerire tra i suoi produttori né i salariati, né l’insieme degli statali, insegnanti compresi, né tantomeno la galassia del precariato e dell’atipico, e certamente non la quasi totalità dei posti di lavori occupati da recente e meno recente immigrazione, dal momento che si constata con desolazione che l’Italia sembra solo capace di importare vu’ cumpra’ e camerieri.
Eleganze lessicali e umane a parte, Boldrin qui sfida audacemente il paradigma liberale/liberista e sostiene che lo Stato, nelle sue mille articolazioni, è diventato la porta obbligata attraverso cui la crescita economica può passare o, altrimenti, essere respinta.
Lo Stato deve incoraggiare il lavoro altamente qualificato ed il capitale tecnologico, attirando così risorse finanziarie e tecnologiche d’avanguardia.
Questo però non avviene: il problema economico del declino italiano è l’apparato dello stato e sistema della politica. Lo stato italiano e l’attuale elite politico-burocratica italiana sono nemici (infatti, assieme alla criminalità organizzata, i peggiori nemici) della crescita economica italiana. Occorre rivoltare l’apparato dello stato italiano come un calzino e cambiare da cima a fondo le sue elites politico-burocratiche perché smettano di esserlo.
Un gesto così semplice tuttavia pare oggi assai difficile, perché i produttori italiani sono politicamente divisi lungo profonde crinali ideologiche che persino oggi, nel mezzo della peggior crisi del secondo dopoguerra, sembrano rimanere intatte. Spaccature ideologiche che sono bruttissime bestie per Boldrin: “guelfi” e “ghibellini”, “comunisti” e “fascisti”, infine “Nord-Sud”: queste divisioni non hanno una ragion d’essere che non sia materiale, e quindi occorre superare gli aspetti puramente ideologici di tali divisioni riuscendo, nel contempo, a dare una risposta pratica credibile ai loro fondamenti reali, ossia economici. La risposta può solo essere solo ed unicamente nella crescita economica.
Per ottenere questo, per generare crescita, occorre negare l’apparato dello stato italiano nella sua forma attuale: non riaggiustarlo, ma rifarlo.
Detto così, parrebbe cosa facile. E che ci vuole? Un bel programma politico, non una rivoluzione ma un rivoltamento, detto in linguaggio spiccio, di chi dice pane al pane e vino al vino, concreto e, cosa che non guasta, popolarescamente comprensibile. L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare. Fa un po’ specie ritrovare il calzino rivoltato sul sito di Cordero di Montezemolo, chissà dove sarà finito l’aplomb di famiglia degli Agnelli, e magari viene ancora in mente l’informal del golfino e barba lunga dell’attuale AD di FIAT S.p.A. e Chrysler Group LLC.
Con un po’ di memoria, ci si rammenta che l’espressione non deve portare troppa fortuna, se a un Brunetta che prometteva di “rivoltare come un calzino la città di Venezia, strappandola al suo attuale declino”, i Veneziani hanno sempre preferito altri candidati.
E la memoria può far ricordare innumerevoli slogan, che come distillato terminale di un’interpretazione della realtà sociale e di una connessa strategia comunicativa, rivelano perlopiù della realtà una fondamentale incomprensione e un’ottusa semplificazione.
A volte, stare a sentire un economista è come ascoltare un personaggio uscito da un libro della Rowling. Nel caso di Boldrin, non si capisce bene come sia possibile per un adulto con un po’ di cervello pensare che le “divisioni ideologiche” non seguano le profonde linee di frattura della società italiana, e che la “crescita economica” (più soldi e lavoro) sia sufficiente a risolvere, una volta per tutte, i conflitti. È vero che la rappresentazione del conflitto, la sua messa in scena “ideologica” appunto, spesso occulta i termini concreti del conflitto, ma non occorre essere materialisti dialettici per sapere che i conflitti costituiscono la struttura stessa delle società, non sono un inconveniente indesiderabile di una fase di crescita, o di decrescita, e comunque gli economisti si dovrebbero ficcare in testa una semplice verità: di soldi (risorse, lavoro, opportunità, chance, etc.) ce n’è sempre troppi per alcuni (di solito pochi), e sempre troppo pochi per altri (i più), anche se tutti pensano che di soldi non ce ne siano mai abbastanza. E allora, invece di avere come orizzonte soltanto la moneta, nelle sue varie forme, sarebbe forse il caso di parlare di condizioni complessive dell’attività e del lavoro (cioè di grado di civiltà di un paese): diritti certi, giustizia, rispetto e tutele.
Invece Boldrin, che a sentirlo parlare in certe occasioni pare anche un tipo ragionevole e simpatico, nella logica di un discorso che vede nell’afflusso salvifico di valuta dall’estero la fine delle divisioni tra gli Italiani, riesuma dei modi di pensare che avevano corso nel XVII secolo: secondo lui la politica economica deve per lo più attirare in Italia il capitale umano e quello tecnologico a spasso per il mondo, e permettere loro di meglio realizzare il proprio potenziale, quasi una versione rispettabile e correct dell’invito a investire in Italia perché le segretarie sono carine.
Così arriveranno i soldi, gli Italiani compreranno più cose (si spera prodotte in Italia), e smetteranno di essere sporchi, cattivi, mafiosi, rissosi e corrotti.
Forse l’ordine delle cause andrebbe invertito: non è la ricchezza che attenua i conflitti, ma una società ben regolata a partire dalla distribuzione delle risorse che può attirare quei capitali umani e tecnologici che è desiderabile avere a casa propria.
Se vogliamo pensare a una società in cui valga la pena di vivere, e in cui quindi godere del necessario e di qualche superfluo, non si può prescindere da un tema che per alcuni economisti è al di sotto della linea del radar: i diritti della persona, i diritti pubblici. Proprio un’azienda italiana che Cordero di Montezemolo dovrebbe conoscere, la Fiat S.p.A., ha deciso di limitare i diritti di rappresentanza sindacale a una buona metà di dipendenti. Ha deciso insomma di sospendere un diritto costituzionale, così, per un pregiudizio ideologico spacciato per esigenze di gestione del personale (e vaghissime, inverosimili promesse di nuove assunzioni). C’è un nesso con una gestione aziendale che vede una perdita crescente di quote di mercato? La Confindustria, un’associazione che Cordero di Montezemolo dovrebbe conoscere, ha stabilito che l’art. 18 è il principale ostacolo alla ripresa economica, sfidando in ciò perfino il buon senso. All’estero non c’è, dicono. All’estero però, nei paesi con cui ci piace confrontarci, esistono analoghe forme di tutela contro l’arbitrio del datore di lavoro, e il mercato del lavoro non è una teoria di sbarramenti per chi il suo lavoro lo perde. Cordero di Montezemolo ritiene che dal 2013 sia indispensabile una politica che sappia parlare alla gente e che possa mobilitare nuove risorse civiche. Bene! Sul progetto TAV in Val di Susa, che sfida qualsiasi razionalità economica, oltreche i diritti e la pazienza della gente, che cosa Italia Futura ha da dire? Ai cittadini della Val Susa? E agli operai a cui è stata negata rappresentanza sindacale? E ai precari? E ai milioni di partite IVA, che sono lavoratori automomi solo di nome? Agli esodati? Ai disoccupati giovani e meno giovani? Ai familiari dei cinquantatre imprenditori e artigiani suicidi in Veneto dall’inizio della cosiddetta crisi? È gente anch’essa, mi pare, ma non mi pare che Italia Futura abbia saputo finora parlare a costoro.
Sono allora credibili questi proclami di rinnovamento, di novità, di “rivoltare lo stato come un calzino”? Di riforma dello stato sento parlare dalla notte dei tempi. Poco invece ho sentito su che cosa sia diventata la società italiana nel suo mutamento dall’inizio degli anni Ottanta (qui Boldrin secondo me azzecca un cruciale periodo di trasformazione) fino a oggi, che cosa ha significato l’arretramento sidacale, che cosa è stato il proliferare delle partite IVA, il contestuale allargamento dell’area del precariato, la devastante emigrazione intellettuale, una vera e propria istigazione al suicidio rivolta all’intelligenza sociale. E la fine delle speranze di fare un giorno parte di una società giusta, di vedere equità nel reddito, rispetto dei diritti, tutela dei deboli. Non ha senso parlare di uscita dall’emergenza, arresto del declino, crescita, innovazione, merito, se non si parte da qui.
Tutto questo chiama in causa non i “produttori”, che non si capisce bene cosa siano dall’articolo di Boldrin, ma i ceti dirigenti italiani. Che sono un gruppo assai fluido e diversificato, certo, e a volte poco definito. E forse ricordare che Cavour non era di madre lingua italiana e conosceva poco dell’Italia che non fosse il regno di Sardegna, aiuta a capire la difficile formazione dei ceti dirigenti di questa povera nazione, avvenuta con successive giustapposizioni, spesso estemporanee, di ambiti, aree geografiche, interessi, influenza, pressioni estere e interne, clientelismi, tradimenti, fughe e vigliaccherie, guerre di corsa, rendite di posizione, incursioni piratesche, conflitti di bande.
Colui che entrerà nei libri di storia come il dominatore della vita politica italiana degli ultimi diciassette anni, con un giudizio che presumibilmente pochi invidieranno, ha sempre accreditato di sé un’identità di imprenditore. Ebbene: in Italia questo termine copre un ventaglio di attività e comportamenti dall’assoluta benemerenza alla delinquenza pura e semplice. Gli imprenditori italiani hanno subito una mutazione “antropologica” proprio a partire dagli anni ’80, quando il ceto politico al governo, era il CAF, strinse un implicito patto con determinati ceti sociali, differenziati per aree geografiche: al Nord si sarebbe chiuso un occhio su corruzione ed evasione fiscale, al Sud, oltre alla corruzione ed evasione, si aggiunse anche la contiguità con il mondo criminale. “Arricchitevi”, secondo la vecchia raccomandazione attribuita, forse a torto, a François Guizot durante il regime di Luigi Filippo.
Nulla di male nella ricchezza lecitamente acquisita, per carità, anzi; ma dalla politica dovrebbe sempre venire un’idea della società che si vuole costruire, o semplicemente si dovrebbe sapere dove si vuole arrivare, che cosa tutte le decisioni (o non decisioni) implicano e provocheranno nel breve e medio termine. E invece in Italia, è la mia impressione, tanti operatori, tanti piccoli “imprenditori” (questi non sempre “giovani”), le partite IVA, chiunque si sia sentito incoraggiato ad aprire un’attività nell’ultimo trentennio, ha lavorato in un vuoto di prospettiva, di programmazione, di linee guida, uno sviluppo fragile esposto ai cicli dei mercati, mandati allo sbaraglio, e come uniche protezioni il ricorso a forza lavoro precarizzata, o al lavoro in nero, e la possibilità di evadere le tasse. Quando poi arriva la crisi, la crisi vera, che poi è la situazione normale, default del capitalismo, le attività economiche saltano, e chi ha un’idea del lavoro anche come dovere, come rete di obblighi sociali, in questo vuoto si fa prendere dallo sconforto. Gli squali invece tornano sotto il pelo dell’acqua. È un altro volto del dramma italiano di questi tempi.
Ma pur rimanendo nel mondo del lecito, bisogna dire che il passaggio delle grandi aziende dagli investimenti alla speculazione finanziaria fu proprio inaugurata dalla Fiat sotto la direzione di Cesare Romiti. Alle storiche difficoltà di reperire e investire risorse private da parte delle aziende, si aggiunse da allora una sempre minore propensione all’investimento. E si arriva allo ieri e all’oggi: chiusura di impianti, perché non ci si crede più. Debito pubblico. Emigrazione di massa del ricambio generazionale tecnico-intellettuale. I ceti dirigenti hanno divorato il futuro d’Italia. Forse Boldrin dovrebbe davvero sforzarsi di dare un nome ai suoi “produttori” che non coincida con poteri attuali e recenti.
C’è qualcuno oggi che non guarda alla proliferazione di partite IVA, al precariato, alla disoccupazione giovanile, al generale attacco ai diritti civili, come a segni di una grave distorsione nella concezione del lavoro, nella definizione normativa di prestazione lavorativa e nei rapporti tra prestatori e datori di lavoro? Nel quadro delle garanzie e dei diritti? L’Italia è il paese nel quale il reddito dichiarato medio di una lavoratore autonomo è inferiore al reddito di un lavoratore dipendente. Non basta questo dato a far capire quali siano le priorità da “rivoltare”?