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Parole in pellicola – Il fondamentalista riluttante

Creato il 30 maggio 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

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Il punto migliore per osservare la sponda opposta è dal ponte che sta in mezzo. Dal punto medio le consolidate certezze, le convinzioni più sicure, si spargono di incertezze e visioni nuove. La profondità dello sguardo d’insieme colora nuove tonalità e ridisegna sicuri e fin troppo conosciuti confini. Indistintamente, da una delle due sponde, l’altra riva sembra sempre troppo bella o troppo brutta, accogliente o inospitale. Andando oltre, invece, attraversando il fiume, è possibile osservare, conoscere, capire. Nella città di Lahore, Changez, un giovane pakistano, da poco rientrato da New York, incontra un cittadino americano nel vecchio bazar di Anarkali e tra i due Inizia un’avvolgente conservazione. Sorseggiando il pregiato tè del kashmir e mangiando il cibo locale egli racconta la sua storia, quella di un giovane pakistano che, per compiere i suoi studi, lascia il suo paese una esclusiva università americana, si laurea con il massimo dei voti e, in breve, diventa un bravissimo analista finanziario a Manhattan. Successi, amicizie, feste e l’amore per la fragilissima e tormentata Erika danno il segno che il percorso fin qui fatto è quello giusto, e il tempo non può che rimarcare le ambizioni americane del pakistano Changez. Ma l’ingranaggio si inceppa, si apre una crepa che diventa in breve una voragine interiore. I grattacieli di Manhattan vanno in frantumi e in frantumi vanno anche le certezze granitiche di Changez. L’11 settembre è una data maledettamente cruciale. La vita di tanti, troppi, in oriente come in occidente, ha subito dei radicali cambiamenti, nelle abitudini, nel pensiero, nelle paure. Ad alcuni, moltissimi in verità, la vita non è stata soltanto cambiata o sconvolta, è stata spazzata via, in oriente come in occidente. Dallo schermo di un televisore di una stanza d’albergo, mentre la polvere delle macerie sale, comprendo il cielo e il sole, l’ ”americano” Changez non prova, per quanto drammaticamente accaduto, né dolore né coinvolgimento, e quando la “sua” America inizia a lanciar bombe alla cieca, vicino al suo Pakistan, nel cuore della sua cultura, nella casa dei suoi genitori, inizia per lui una travagliatissima metamorfosi. Il prototipo di manager che stava incarnando, il businessman in carriera, il ragazzo sicuro di sé, si rende conto di essere parte del sistema, pezzo di un mosaico di quell’economia di potenza, di quella guerra e di quelle bombe. Terrore e morte. S’avvia così l’ inarrestabile, silenziosa pacifica metamorfosi: diminuisce il suo impegno a lavoro, svaniscono le motivazioni, smarrisce la concentrazione fino a quando con una barba già folta si licenzia dal suo prestigiosissimo lavoro, lascia la sua casa di New York e, sospinto da rabbia commista a nostalgia, decide di tornare a casa, in Pakistan, a vivere con i suoi, «perché un’America come quella andava fermata, non solo nell’interesse del resto dell’umanità ma anche nel vostro interesse». E da lì, da insegnante universitario, con un importante seguito di studenti, ha inizio la sua missione di sostenere il disimpegno da parte del suo paese, il Pakistan, verso la politica statunitense, svelando gli interessi di una piccola consorteria, che sotto le spoglie della guerra al terrorismo, ha impunemente perpetrato tante morti in Afghanistan e in Iraq. E chissà dove altro ancora.

Dal libro di Mohsin Hamid è tratto il film omonino in uscita il 13 giugno

di Christian Dolci


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