Mettono un'etichetta.
Incasellano.
Imprigionano.
Le parole creano un'identità.
Rimettono in discussione idee.
Aprono varchi.
Rendono liberi.
E' da molto tempo che rifletto sulle mie parole.
Dopo una laurea e un master (oh, io davvero nè... non a Chicago però... ), è stato abbastanza fastidioso per me scrivere nelle iscrizioni alle scuole, alla voce 'lavoro': impiegata.
Lo ammetto.
E' stato difficile.
L'impiegata per me, ma anche nell'immaginario che la parola si porta dietro, vuol dire: conti, carte, computer, biro, excell, 9-18.30.
E così ho fatto per un po'.
Poi quell'etichetta mi è diventata simpatica e la sfoggiavo. Anche se il mio lavoro, paradossalmente, nel frattempo era cambiato: era tutto basato sulla comunicazione, il marketing per usare una parola che dà più lustro. Una parola per altro che rientrava meglio nel mio iter universitario.
Ora ho lasciato pure quello.
Interno casalingo.
Ho rifatto le iscrizioni alle scuole.
Lavoro della mamma: ......
Già. Cosa metto? Casalinga.
NO.
Casalinga mai.
Di fatto lavoro un po' nelle scuole a contratto. Non è un lavoro che mi impegna tutti i giorni.
Lavoro della mamma: lib. prof.
E corrisponde.
Ma perché casalinga no?
La cosa mi ha turbato, quel mio frenarmi mi ha anche fatto arrabbiare con me stessa.
Ma sento che un nodo lì c'è.
Ho riflettuto e ho capito che quello che non mi piace è quel riferirsi alla CASA.
La casalinga fondamentalmente, come suggerisce l'origine della parola stessa, è una donna che sta in casa.
Nulla da togliere a questo tipo di donna.
Mia suocera è una nonna casalinga. La sua casa è lei. Ai miei figli piace capitare a casa sua a sorpresa e lei è lì, si direbbe ad attenderli, proprio con quella evocazione all'attesa. Ed è molto bella. E molto rassicurante. Anche a me piace andare a trovarla così, a casaccio.
E anche mia nonna era così. Le sue abitudini erano standardizzate al massimo: la mattina andava in sù (gergo dialettale per dire in centro) e il pomeriggio a casa.
Io no.
La casa non è il mio centro.
Il mio centro sono i miei figli.
Non che il centro delle casalinghe non siano i bambini: è solo che la loro esplicazione passa per le loro mura.
Io penso che non esistano più casalinghe, da anni.
Forse è quella dai nostri genitori quella che si può considerare l'ultima generazione di casalinghe.
E allora perché non è cambiata quella parola?
Quello che meno mi contraddistingue è la sedentarietà, l'appartenenza ad una via, ad un numero civico. Il luogo in cui sono più spesso è la macchina o la sala d'attesa:
autolinga?
attendendinga?
madrelinga?
Io ho l'urgenza di definirmi diversamente.
Ne ho l'urgenza, ma so anche che è un mio limite.
Io non produco reddito. Ma non ho l'aura della santità che contraddistingue la casalinghitudine.
E mi sento a metà. Davvero. E a volte ne soffro davvero e percepisco chi mi guarda con disprezzo culturale - "Eh, fa la mamma.." -, da chi mi invidia - "I miei figli li vedo poco..." -, e da chi mi compatisce - "Ma come fai?".
Tra di noi possiamo dirlo: è socialmente più apprezzabile una donna casa-lavoro. E' obiettivamente uno status più condiviso e dunque più normale.
Io mi sento anormale.
E dunque mi nascono dei sensi di colpa e dunque il tempo in cui non cresco dei bambini, mi occupo anche di quelli degli altri facendo la rappresentante, facendomi parte attiva nella cosiddetta vita civile. E lo faccio felicemente. Pensando che io ho il tempo che chi lavora non ha e lo metto a disposizione.
Ho scavato questa definizione dentro di me, con fatica.
E tutto questo dall'umana società viene tradotto solo in un modo:
casalinga.
Eh no cazzo. Capite che no!
Le parole non cambiano perché parole nuove cambiano.