Gli aereoporti sono i templi della modernità, gli unici luoghi in cui la ricerca dell’illuminazione privata di migliaia di persone assume un carattere estremamente pratico, perché, come ha scritto Bruce Chatwin, il viaggio dà forma alla mente, esattamente come un dio qualsiasi.
È lo stesso scrittore itinerante a descrivere un interessante parallelo tra il disagio della civiltà attuale e la prassi dell’immobilismo, laddove tutti i popoli e le più antiche culture ritenevano che senza un purché minimo “nomadismo” nessun uomo poteva crescere in quanto membro di una comunità, in questo caso la comunità per eccellenza, quella umana. Posso dunque considerarmi un fautore dell’evoluzionismo umano anziché un irresponsabile che rimanda tirocinio, esame di stato, lavoro di diversi mesi per il puro piacere di viaggiare?
Non lo so.
Ma è con questo sentimento di andare verso qualcosa che mi farà crescere, conoscere e accettare ciò che al mondo accade che mi si sono nuovamente aperte le porte di Roma Fiumicino, benché questo sentimento si accompagni anche a qualcosa di concretamente anti-romantico, le varie procedure che ti portano da un paese x a un paese y attraverso un volo aereo. Un esempio su tutti: i bus-shuttle che collegano la breve distanza tra l’ennesimo segmento di percorso e un volo che finisce quasi sempre col cambiarti la vita. La parte più noiosa d’un viaggio è senz’altro questa, e questo mio viaggio non fa eccezione.
Passo goffamente un check in assai restrittivo per il mio pur piccolo bagaglio a mano: i Veda e le Upanishad legati alle caviglie con uno spago e nascoste dalla zampa larga dei pantaloni per stare dentro al peso consentito – 7 kg, tutta la mia vita per sei mesi -. È il momento del panino, l’ultimo per i mesi a venire, ed è a sorpresa il momento strappalacrime di questa partenza. La scelta d’obbligo ricade sul celebre camogli, e mi sento improvvisamente morire dentro qualcosa che neppure i lucciconi alla stazione per salutare Francesca avevano smosso, troppo eminenti per richiamare un così pragmatico e insospettato cedimento.
Qualcuno ha detto che in ogni lacrima si consuma una nascita o un lutto. Non so chi e cosa nascerà da questa esperienza, so però chi e cosa muore: muore una parte di me verso la quale non provo alcun coinvolgimento, quella dell’immobilismo istituzionalizzato, per cui pare più opportuno iniziare un tirocinio, stage o master subito dopo il diploma/laurea in segologia applicata che perdere un semestre a scoprire un po’ di mondo con la forza e la debolezza dei propri passi. A dire il vero era una parte di me nata con una condanna a morte perché l’avevo identificata presto, attraverso una canzone dei Tre Allegri Ragazzi Morti che ascoltai a 14 anni alla radio: allora povero me / e anche il mio cavallo / sarà che sono vuoto / che la mia vita è in stallo / ah povero me / che parlo al mio cavallo / che mi racconta di quando / per rendersi indipendente / cercò un lavoro sicuro / per non finire come un mulo / avrebbe avuto una casa sua / e un’automobile tutta sua / e quindici giorni all’anno / per fare il giro del mondo / ah povero me / e anche il mio cavallo.
Così sono passati anni insieme ad amici ai quali mi credevo simile e con cui pensavo di scappare, tornare, ripartire ancora e poi a loro è successo qualcosa e alla fine questa matrice di se stessi portatrice di un immobilismo difeso a forza di auto-inganni ha trionfato a sorpresa e nell’arco di un decennio è già un unico enorme blocco di malachite in una carriera lavorativa che ha concesso poi solo un accumulo di ferie, se va bene, a dispetto di contrapposizioni giovanili(stiche) e dell’emergere precoce di rimpianti privati e pubbliche lamentazioni nei bar di provincia. Dal mio punto di vista era meglio non rischiare. Ero al match point e ho giocato con ostinata convinzione la palla decisiva. Game, set and match: si lascia tutto, si parte davvero, stavolta mica a discorsi.
Il mio bagaglio è umoristicamente piccolo per un semestre di zingarate: 20 litri, raccomandati per una scampagnata in montagna. Avrei potuto fare di meglio, giacchè il rapporto libri:magliette è di 7:2, ma non sono riuscito a sconfiggere l’istinto bibliofilo, o almeno non prima di essere già in viaggio: c’è sempre tempo per rispedire i libri a casa, magari una volta letti. E si, anche il piccolo netbook è pieno di libri in pdf. Ma non di musica, quella non importa portarmela dietro, non esiste un momento nella mia vita in cui nel mio cervello non abbia risuonato una musica specifica, permotivi che restano ignoti e spero non siano causati da una qualche forma di psicopatologia latente: non mi piace chi si mette le cuffie mentre è all’aria aperta, nel mezzo alla gente – l’autismo andrebbe curato, non allenato – e penso che quando sei in uno paese sconosciuto, in mezzo a persone mai viste prima e decidi di metterti la tua musica nelle orecchie beh, stai chiudendo le antenne ricettive, ti stai difendendo dall’ignoto col noto. Non mi piace, è lontano dal mio approccio di viaggio, e quindi di vita.
Il mio bagaglio è bellissimo perché è giallo. Il giallo è il mio colore preferito, con una distanza abissale da tutti gli altri. Il Michael Jordan dei colori. Ma il mio bagaglio è anche assurdamente piccolo. Per me è un viaggio nel viaggio star fuori dei mesi con otto chili scarsi di cose. Ma poi penso che potevo anche osare di più e poi vedo che ho a malapena un cambio intero in borsa e mi dico: ma che cazzo volevi fare, partire con un marsupio? Si, avrei potuto e non sarebbe morto nessuno, ma per dimostrare cosa, e a chi? Certo a me stesso, per prendermi in giro nel pensare di poter far compiere il giro di me stesso al mondo, e non viceversa. Ma questo capita raramente: non sono Siddharta e persino lui, l’illuminato, capisce che non è attraverso l’esteriorizzazione delle privazioni che si raggiunge una interiore pienezza, e io sono solo un ragazzo curioso di conoscere il mondo e partito alla volta dell’Asia, nella speranza di vivere mesi col cuore traboccante e riportare la pelle salva.
È questo che parola più parola meno pensai mentre ammutinati in procinto di naufragio terminavano l’ultima scorta preparata prima della partenza nell’imprevedibile oceano che unisce o separa il cuore, anzi le viscere, all’intelletto: per me l’ultima scorta prima di questo grande enorme immenso “boooh!” era un banalissimo panino – pagato una sassata – all’interno del gate dell’aereoporto e divorato all’istante in un angolino riparato, mentre l’addetto alla zona bar di turno bestemmia dietro alla goffa indecisione dei giapponesi al banco dei generi alimentari.
Ah, mi sa che non l’ho scritto: sto andando in India.
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