Pier Paolo Pasolini (1922–1975)
scritto da Marco Belpoliti per La Stampa
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere». Con questi versi si apre la quarta parte de Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel 1957 da Pier Paolo Pasolini. Versi che esprimono in forma efficace il suo atteggiamento, non solo di poeta, ma anche di uomo.
Parole nette: lo scandalo, la contraddizione, l’essere con te e contro di te, il cuore e le viscere, la luce e il buio. Parole che commuovono e che chiedono, com’è stato detto, una fraterna e totale complicità. La complicità con chi ti sta dicendo che è con te e contro di te nel medesimo tempo. Una contraddizione, ma anche un’identificazione. Questo è Pasolini.
Alfonso Berardinelli in un suo saggio ha perfettamente individuato la «sublime autocommiserazione» e l’«orgoglio irremovibile della vittima» grazie al quale Pasolini ha potuto esprimere al meglio il suo messaggio. L’effetto è quello dell’emozione e della repulsa insieme: «I conflitti morali in cui Pasolini trascina il lettore sono conflitti che riguardano anzitutto lui: amarlo o respingerlo. Ma è lui stesso che sembra costretto, nello stesso tempo, ad accettarsi o a respingersi». Che è quello che ci chiede con i suoi versi – sulla mia generazione, ma anche su quella dei miei fratelli maggiori, e anche dei padri, l’intellettuale corsaro e luterano ha avuto un’influenza decisiva, sino al ricatto, o all’auto-ricatto morale -: essere con lui e contro di lui.
Un esercizio difficile, ma necessario quasi non fosse possibile che l’aut aut, e non già l’et et. Tuttavia ora è venuto il momento dell’et et: possiamo accettarlo e respingerlo nel contempo. Per fare questo occorre penetrare nelle motivazioni con cui Pasolini, a partire dal 1968-69, ha acuito la sua analisi della società italiana, della omologazione in corso, dell’inarrestabile «mutazione antropologica». Ragioni che risiedevano, e risiedono, nella sua estetica, che è poi la fonte della sua etica. Pasolini è stato osteggiato, escluso e perseguitato in vita, non solo dalla destra, dai giudici, dai giornali benpensanti e reazionari, ma anche dalla sinistra. Che non apprezzava la sua contraddizione, che respingeva la sua scandalosa omosessualità, mai nascosta ma sempre esibita, fonte e ragione della sua ispirazione poetica. E soprattutto politica. L’etica di Pasolini infatti si fonda sull’estetica omosessuale, come è evidente sin dal primo articolo comparso sul Corriere della Sera nel gennaio 1973 e dedicato ai «capelli lunghi», ai corpi dei ragazzi, scritto che ora apre Scritti corsari (1975).
Certo c’è chi l’ha amato incondizionatamente anche a sinistra, in particolare tra i giovani aderenti al Partito comunista, cui Pasolini ha dedicato dopo il 1970 una forte attenzione e un’incrollabile speranza; ma anche questi ammiratori con ogni probabilità non hanno mai davvero preso atto della sua omosessualità, l’hanno ideologicamente sublimata, come accade sovente nell’entusiasmo dell’essere giovani, cogliendone gli esiti politici polemici ma non certo le premesse estetiche. Poi l’atteggiamento si è rovesciato: il mondo intellettuale, la società letteraria e quella giornalistica, e perfino la politica, sia di destra sia di sinistra hanno vissuto la morte di Pasolini alla stregua di un’accusa, come un ricatto cui era impossibile sottrarsi. Come in una nemesi divina, l’ammirazione verso il poeta ha finito per nascondere una sorta di rancore, di risentimento, prodotto dalla sua «diversità», e tramutato nel suo opposto.
Oggi, a 35 anni di distanza, c’è chi ne fa la vittima, se non proprio il martire, delle trame occulte che dal 1969, e anche prima, hanno intorbidato e manipolato la storia del nostro paese: Pasolini assassinato dai servizi segreti deviati; Pasolini che scopre le piste nere, gli autori degli attentati neofascisti e per questo viene eliminato. Una fantasia? Con ogni probabilità sì, ma anche il sintomo, in senso psicoanalitico, della propensione alla paranoia che attanaglia la sinistra italiana, o almeno alcuni intellettuali, scrittori, e persino giudici. Il Grande complotto, quello che Umberto Eco e Carlo Ginzburg hanno raccontato con efficacia in due opere diversissime ma illuminanti, Il pendolo di Foucault e Storia notturna, alla fine degli anni Ottanta, nella convinzione che occorresse liberarsene in modo definitivo. In questo modo l’attesa messianica di una Giustizia finale sul delitto Pasolini, come su tanti altri attentati, omicidi, atti eversivi degli anni Settanta – visti come un’unica catena -, finisce per diventare paralizzante e per sostituirsi a una più terrena e contingente giustizia. Come se rivelando il Complotto al paese, per questo solo fatto, lo si potesse davvero, e di colpo, dissolvere.
Senza rinunciare a ricercare gli autori dell’omicidio del poeta – molte cose restano oscure – è però venuto il momento di fare i conti con Pasolini seguendo le sue stesse indicazioni, ovvero perseguendo quella contraddizione che ci addita nei versi de Le ceneri di Gramsci, quella contraddizione che spesso costituisce una sorta di scacco per chi legge le sue opere, per chi vuole comprenderne le ragioni e farle sue: andare oltre Pasolini con Pasolini. Le accogli o le respingi. Tutto nel poeta e nel corsaro e luterano è così: innocenza e colpevolezza, onestà disarmata e mistificazione ingegnosa. Pasolini lo si accetta in toto o lo si rifiuta. È il suo ricatto, condotto sino alle forme estreme, di cui la stessa morte, al di là delle molte cose oscure, appare in definitiva come il ricatto dei ricatti. Una morte di cui non sembriamo più in grado di liberarci; per farlo, come accade e ancora accadrà, ci s’inventa un complotto e ci si fa detective e accusatori per stornare da sé quella estorsione, più interiore che esteriore, che Pasolini compie in ognuno di noi.
Per andare oltre Pasolini con Pasolini bisogna seguire il consiglio che il Corvo dà ai due suoi compagni di strada, Totò e Ninetto, in Uccellacci e uccellini: i maestri si mangiano in salsa piccante. Piccante, se possibile, per digerirli meglio. Attuare il procedimento di cui il poeta è stato un maestro: divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età, ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza. Restando a livello del solo amore o, al contrario, della sola repulsa, non c’è scampo. Amarlo fino al punto di divorarlo, e ingerirlo per digerirlo.
Se negli anni Settanta la sinistra intellettuale e politica disdegnò gli articoli del poeta comparsi su giornali e riviste, spesso pensando, o dicendo ad alta voce, che si trattava di cose già dette e ridette, da Marcuse, da Adorno, da Horkheimer, una sorta di divulgazione di ben maggiori pensieri espressi decenni prima, oggi invece Pasolini diventa l’unico sociologo, o pensatore, o moralista, in grado di interpretare la grande trasformazione italiana dagli anni Sessanta in poi, mutando l’indifferenza o l’ostilità di un tempo in ammirazione sconsiderata; e non solo la sinistra, ma anche la destra non fa che manifestare questa devozione senza riserve ora, dopo averlo crocifisso con calunnie e campagne di stampa. Dell’autore di Salò, ora ci viene sovente offerto un santino quasi fosse – e per tanti magari lo è – il Padre Pio della sinistra, bisognosa, come i fedeli dello stigmatizzato di San Giovanni Rotondo, di uno sciamano che decifri in modo rabdomantico il presente, un sant’uomo cui rivolgersi con religioso stupore e abbandonata fiducia per conoscere il nostro futuro anteriore.
Mangiare Pasolini per capirlo meglio, per trarre forza da lui, dalla sua contraddizione, per non subirla, ma per declinarla. Per non restare vittime del complesso-Pasolini che attanaglia ancora chi attende la palingenesi generale della nostra società, tutta da salvare o tutta da perdere, inclinazione moralistica che il poeta per primo avrebbe, ne sono certo, colpito e sferzato con la sua urticante vis polemica.
(Fonte: La Stampa)