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“Passeggiata mattutina”, di Ryszard Kapuściński

Creato il 22 aprile 2011 da Fabry2010

Da “Il Reportage” numero 6, aprile-giugno 2011 (rivista diretta da Riccardo De Gennaro) (poi ripreso dal sito di Repubblica)

“Passeggiata mattutina”, di Ryszard Kapuściński

Passeggiata mattutina, inedito in Italia, è un reportage ritrovato negli archivi di Kapuściński nel 2004 e pubblicato in  Polonia nel 2007, due giorni dopo la scomparsa dell’autore. Si tratta di un dattiloscritto di sei pagine, corretto più volte dall’autore, corredato da uno schizzo dei luoghi menzionati nel reportage e da alcune fotografie. Da alcune notazioni contenute nel testo si presume sia stato scritto nel 1995. Il periodo a cui fa riferimento l’autore è quello che intercorre tra la fine del regime comunista e l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea (2004), un’epoca ormai conclusa e lontana, in cui erano ancora vivi i ricordi del passato regime e regnavano ancora caos e incertezza. Da qualche anno il percorso della Passeggiata mattutina è ricordato da una lapide celebrativa posta nei luoghi descritti dal grande reporter.

Mi sveglio di mattina, mi prendo il caffè e vado a farmi una passeggiata. Sono le sette. Cammino lungo la strada nella quale abito – via Prokuratorska fino a via Wawelska. Passo il consolato britannico: a quell’ora davanti al cancello c’è già una folla di gente. Alloggiano qua, dormono nelle macchine e sui prati lungo la strada, sulle panchine, aspettano per lasciare la domanda per il visto. Mi rendo conto subito di essere nel Terzo mondo. Uno spettacolo mattutino del genere non c’è né a Oslo né a Berna. Invece lo posso vedere a Kampala e a Kuala Lumpur. Gli abitanti dei paesi più poveri – come, per esempio, la Polonia – offrono le loro braccia a poco prezzo per il lavoro, i paesi ricchi si difendono, hanno abbondanza di braccia. Affamati, ma non fino al punto da non potersi muovere (come i miei poveracci del Sahel), invadono l’Occidente, dove è ancora possibile, se si riesce a trovare lavoro, avere un buon stipendio (se al vicino di mia madre, il signor Kucharski, muratore di una certa età, venisse chiesto quale fosse il suo sogno, risponderebbe senza esitare: “Sa, vorrei almeno una volta guadagnare bene!”). Il sogno di un buon stipendio non è il semplice desiderio di riempirsi le tasche. È piuttosto il bisogno di dimostrare le proprie capacità, una pubblicazione dimostrazione di quanto valgo, della mia posizione nella gerarchia sociale. Lo stipendio è piuttosto una questione di come mi vedono e come mi apprezzano, come mi giudicano e come vengo qualificato.

Appena dopo il consolato c’è l’incrocio tra la Wawelska e Viale Niepodleglosci, il punto dove si congiungono tre quartieri – Mochotów, Ochota e Ródmiescie. Davanti a me, di fronte alla sede del Gus (Glówny urzad statystyczny, l’ufficio centrale di statistica), vedo l’edificio nel quale abitava prima della guerra l’autore di Ludzi Podziemnych, il grande massone e senatore Andrzej Strug, proprio nel suo appartamento Wytkacy conobbe Czeslawa Okninska, l’ultima fiamma della sua vita. Era l’anno 1929. Dieci anni più tardi, nel settembre del 1939, si erano diretti entrambi verso il Polesie. Lì, nel bosco vicino al villaggio Jeziory, hanno commesso il loro suicidio (dal quale la Okninska venne tratta in salvo).

Taglio via Wawelska ed entro nel Campo di Mokotów. Da lontano vedo l’edificio della Biblioteca Nazionale, un eterno cantiere. Faccio notare che prima di aver cominciato la ricostruzione della biblioteca, sistemarono prima l’intero complesso dei prefabbricati e delle solide baracche per la burocrazia della ditta edile, come se dall’inizio prevedessero che il non grande edificio della biblioteca sarebbe stato costruito in lunghi anni, per intere generazioni. E così, in effetti, è. I prefabbricati amministrativi dalla mattina erano pieni di funzionari e accanto al cantiere, sui ponteggi un po’ malconci c’è un operaio, un altro mescola il cemento nella betoniera rovinata.
Ora (è la fine di maggio) entro nel verde del Campo di Mokotów. Qui, all’angolo tra Via Wawelska e Viale Niepodleglosci nel 1945 hanno costruito un isolato di piccole case finniche unifamiliari di legno. Subito dopo la guerra ci hanno assegnato una casa del genere, perché mio padre lavorava in una impresa di edilizia popolare. Quella piccola casa senza bagno e senza riscaldamento centralizzato era un lusso, era la felicità, perché fino ad allora eravamo accampati (una famiglia di quattro persone) in una piccola cucina tra le rovine sul terreno dei magazzini del cemento e dei mattoni vicino alla Via Srebrna, non lontano dallo scalo chiamato Siberia (da qua un tempo deportavano la gente in Siberia).

La nostra casetta (indirizzo: terza colonia, sesta casa) poggiava su un terrapieno di sabbia dalla quale i bambini durante l’inverno scendevano sulle slitte. Su questo terrapieno, nell’anno 1939, si ergeva il fusto sul quale venne trasportata la bara di Pilsudski. Da lì il Maresciallo di Polonia presiedeva la sua ultima parata, prima che il corteo funebre si dirigesse verso il Wawel, a Cracovia.

Cammino lungo il sentiero tra i prati argentati per la brina scintillante di mattina tra gli alti pioppi. Mi ricordo di quando piantavano questi pioppi appena dopo la guerra. Degli arbusti fragili e gracili, che si sono trasformati ora in alberi alti e robusti. E qui, all’improvviso, un frutteto di meli, pere e prugne, che fioriscono proprio adesso, e spargono profumi dolci e forti. Il frutteto qui nel parco pubblico? Sì, perché sono gli alberi che ha piantato intorno alla sua casetta il Signor Stelmach, il conduttore del tram, il quale a quanto pare fu un giardiniere e ortolano. Il Signor Stelmach non c’è più, ma ci sono i suoi alberi e le sue mele, le pere e le prugne verranno raccolte dai bambini di qui. E anche dagli ubriaconi di passaggio, che si raccolgono qui per bere in un’amena ombra una bottiglia di qualche vino scadente.

Purtroppo il mio sentiero passa anche vicino a un luogo molto triste. Oggi questo è un bel prato, ma allora, dopo la guerra, qui c’erano le fosse d’argilla e dentro spuntavano quattro listelli legati con un filo di ferro. Questo significava che lì era interrata una mina. E mi ricordo che vado a scuola mezzo addormentato e mezzo congelato e vedo un bambino, seduto tra questi listelli, e prima di destarmi e pensare qualsiasi cosa, ho visto improvvisamente il bagliore del fuoco, ho udito il secco e acuto fragore e ho visto come questo ragazzino si era inchinato, si era ripiegato ed era diventato immobile. Immediatamente era accorsa la gente dalle case vicine, cominciò un tumulto e una corsa caotica e nervosa, ma quando siamo arrivati sul luogo dell’esplosione, il bambino seduto era già morto in una pozza di sangue. Questo doveva essere successo qua, accanto a questo pioppo, ma dove precisamente? C’è erba dappertutto, ovunque rigogliosa.

Entro sulla stradina principale del nostro isolato. Si chiama Leszczowa, non è né asfaltata né lastricata. La strada è nera, cosparsa di pezzetti di carbone e quando piove si creano delle pozzanghere sporche e catramose. In un punto in mezzo alla strada è disteso un cane nero di razza bastarda. È sempre sdraiato e sempre nello stesso posto, quando passo, il cane abbaia, senza muoversi. È un abbaiare passivo, un abbaiare al vento. Sembra quasi che non sia un essere vivo e sensibile, ma solo un giocattolo caricato per abbaiare. Come se, camminando, avessi improvvisamente spinto un bottone nascosto per la strada e avessi innescato il meccanismo di quel deprimente e monotono abbaiare.

Ad entrambi i lati di via Leszczowa si estendono gli orti municipali. Una volta qui c’erano dappertutto le casette, ma alla metà degli anni Settanta vennero riprese e vendute a poco prezzo ai pupilli del regime del tempo di Gierek. Adesso si possono vedere i posti dove riposava la vecchia nomenklatura, invece ai vecchi abitanti hanno lasciato solo i giardinetti e gli orti. Tutti gli orti sono molto miseri. Le recinzioni sono improvvisate con rami, vari fili e reticolati arrugginiti. I casotti dentro gli orti non erano in condizioni migliori. Ognuno si inventava i materiali con quello che aveva. Se aveva tavole di legno, le faceva con quelle, se aveva lamiere di metallo, usava quelle, e c’erano anche le pareti fatte semplicemente di truciolato, anche di quello più grezzo, oppure di carta catramata.
Quelli che avevano la vernice, un pennello e il cosiddetto “gusto estetico”, avevano dipinto con cura quelle baracche provvisorie costruite in modo amatoriale. Ci sono baracche gialle e verde pistacchio, azzurre e color mattone, ma più di tutte, quelle verdi. Molto spesso – quello che hanno in comune – questi colori, una volta freschi e vivaci, oggi sono sbiaditi, graffiati e scrostati. Malgrado ciò, i cancelli d’ingresso sono un miscuglio di vera e propria poesia di bruttezza e povertà con una sorprendente fantasia e un happening plastico-artistico. Ce ne sono alcune decine, ognuno è diverso, singolare e originale, nel suo design e nelle sue forme grottesche.

Dalla via Leszczowa giro a sinistra e arrivo a una baracca grigia e sporca, dalle finestre piccole, scure, che sembrano quelle di una prigione. Fa parte di una autorimessa di mezzi per l’espurgo dei pozzi neri. Ci sono tanti di questi mezzi, che stanno sempre fermi, perché o non ci sono le squadre, o mancano i pezzi di ricambio oppure i soldi per la benzina. Quello della Biblioteca nazionale e quello della società municipale per lo smaltimento rifiuti sono i due principali edifici, uno accanto all’altro, che si trovano sul Campo di Mokotów.
La parete grigia da accampamento della baracca copre d’estate le alte e fitte bardane. Questa erbaccia, anche se grossolana e poco nobile, è sempre più piacevole all’occhio di quella parete dell’officina dell’autorimessa imbrattata di fango e lubrificante. Appena finisce quel muro, comincia un vecchio immondezzaio. Vecchio, perché si trova qui da parecchi anni. Si è formato lì, accanto al recinzione dell’ufficio della società municipale per lo smaltimento rifiuti, nel luogo dove passano in continuazione i mezzi per l’espurgo dei pozzi neri e per me è motivo di una continua riflessione sul mistero della mente umana e soprattutto su un suo difetto, ovvero la mancanza di connessione tra il vedere e il fare. Perché ogni giorno lo vedono. Malgrado ciò, pur vedendo questa fila di autoveicoli destinati all’espurgo, non puliscono. Perché? Cosa c’è dietro? Forse è un segreto? Un enigma? Cosa glielo impedisce? Ecco un tema terribilmente appassionante.

Anche all’ingresso di Via Leszczowa c’è un mucchio di immondizia. Il contenuto di entrambi i mucchi, schiacciati dalle piogge e dal tempo, è simile. Stracci, alcuni blu e rossi (forse la federa interna di un cuscino di piume), i resti di un cappotto femminile, le scarpe ammuffite, le bottiglie di vodka, di vino e di birra, le lattine arrugginite delle conserve, una lampo arrugginita, una molla arrugginita, i brandelli di carta, di latta, di plastica, uno sgabello rotto, un secchio bucato, un lavandino spaccato, o forse un water. Chi lo sa? Cosa manca ancora? Ogni immondezzaio è come l’immaginazione malata, snaturata e deforme, senza confini e senza fine.
Mi inoltro sul sentiero polveroso e sabbioso. Una volta questa era la traversa della Via Wawelska, e lo è ancora, solo che oggi è completamente sottosopra: in fondo allo scavo profondo stanno posando un enorme condotto. Posano per modo di dire! In realtà è difficile notare qualsiasi misura dell’avanzamento dei lavori. È pur vero che da lontano vedo alcuni operai e la scavatrice. Non posso dire che non succeda nulla. Per tutto il tempo qualcosa succede, qualcuno cammina, qualcuno si piega, qualcuno scruta qualcosa. Succede anche che la scavatrice si impigli nella terra in profondità, e poi qualcuno chiamerà: “Wladek, viè qua!”, che qualcun altro comincerà a battere col martello il suolo resistente, e dopo? Dopo cosa, niente, dopo come ieri, come l’altro ieri.

Passeggiando per di qua, è come se passassi accanto a un mondo insensibile a tutte le tempeste politiche, a tutte le scosse dei cambiamenti. Indifferente ai valori cristiani e ai dilemmi europei. Qui suona sempre la vecchia musica. Qui continua una danza a ritmo lento, ballato a ripetizione, al suono di una melodia locale, in modo arcinoto, con attenzione per non alzare la polvere e non sudare.

Adesso posso girare a sinistra, verso Viale Niepodleglosci, o a destra verso Via Zwirki e Wigury. Andando a destra prima passo intorno a una fossa di cemento vuota e sporca, col fondo pieno di immondizia: una volta qui c’era un lago artificiale, forse persino una fontana. In ogni caso ricordo l’acqua, il suo grande specchio lampeggiante nel sole, con la gente che sedeva sulle panchina, con i bambini che correvano sull’orlo. Più in là cominciano i prati e gli alberi – questa è la più bella parte del parco. Ci sono castagni, noci e betulle, ci sono frassini e larici. Quando splende il sole qui è tutto luminoso. È silenzioso e quasi non si sentono le macchine. La città si è spostata, si è dileguata, ha allentato la sua presa e ci permette di riposare dal suo frastuono.

(Traduzione di Lorenzo Pompeo)

(Copyright © 2009 by the Estate of Ryszard Kapuściński. Original Polish title: Spacer Poranny. First published by Biblioteka Gazety Wyborczej, Warszawa, 2009)



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