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Patentino e residenza: sbagliato estremizzare

Creato il 26 giugno 2010 da Gadilu

di Francesco Palermo

L’invio di una richiesta da parte della Commissione europea per porre fine alla discriminazione originata dall’attuale sistema di certificazione delle conoscenze linguistiche in Provincia di Bolzano e dal criterio di preferenza per i residenti nell’accesso al pubblico impiego è un passaggio formale che non va sottovalutato ma nemmeno enfatizzato. Si tratta di un atto tecnico, per quanto di indubbia valenza politica. Una valenza che va colta nel suo significato reale, e non letta in base a posizioni preconcette.

Sono passati dieci anni dalla sentenza con cui la Corte di Giustizia ha ritenuto incompatibile col diritto comunitario il ricorso al solo patentino come attestazione della conoscenza delle due lingue. Perché siccome il patentino è rilasciato solo in Provincia di Bolzano, i cittadini di altri Paesi che non risiedano in Alto Adige si trovano di fatto svantaggiati rispetto ai locali non avendo la medesima possibilità di ottenere questo documento. E questo rappresenta, in termini comunitari, una discriminazione basata sulla nazionalità – in termini comunitari perché la discriminazione può essere invocata da chi vive in Tirolo ma non da chi vive in Sicilia, in quanto l’UE si occupa solo degli effetti discriminatori transnazionali ma non di quelli puramente interni ad uno Stato.

Per dieci anni non vi è stato alcun adeguamento alla sentenza, fino all’approvazione della norma di attuazione lo scorso aprile. Una norma di attuazione al ribasso, che riconosce altre certificazioni linguistiche così venendo incontro ai rilievi della Corte, ma si premura di salvaguardare il primato del patentino. L’ormai prossima entrata in vigore della norma dovrebbe comunque attenuare i rilievi.

La richiesta di Bruxelles sembra estendersi ora anche al correlato criterio della preferenza per i residenti nell’accesso al pubblico impiego, contenuto nello statuto di autonomia ma sostanzialmente disapplicato da tempo proprio per non incorrere in palesi violazioni del diritto comunitario. L’articolo 10 dello statuto prevede infatti che “i cittadini residenti nella provincia di Bolzano hanno diritto alla precedenza nel collocamento al lavoro nel territorio della provincia”, una norma figlia del suo tempo e palesemente in contrasto col sistema comunitario, ma che, almeno direttamente, non opera più. Esiste tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, un obbligo di rimozione della normativa interna contraria al diritto comunitario, anche se disapplicata. Solo se la Commissione dovesse ritenere che la discriminazione persiste potrà aprire una procedura di infrazione che porterebbe il caso davanti alla Corte di Giustizia.

In un territorio eccessivamente sensibile come l’Alto Adige, in cui ogni cosa (e purtroppo ogni norma) viene letta in chiave etnica (“è per noi o contro di noi?”) e con un’ampia dose di provincialismo, c’è il rischio che si formino due schieramenti, entrambi arroccati su posizioni sbagliate. Ci sarà chi riterrà la richiesta della Commissione un affronto alla sovranità provinciale e un attacco alla tutela delle minoranze da parte dell’Unione europea, lontana, burocratica ed insensibile alle specificità locali. E chi vorrà vedervi l’intervento riparatore di Bruxelles contro l’ingiustizia di un sistema basato sulla segregazione etnica, supplendo all’ignavia di Roma che tollera questo affronto alla nazione in quanto serva della SVP. Sarebbero reazioni non solo miopi e provinciali, ma anche pericolose. Perché getterebbero ulteriore benzina sul fuoco di un conflitto etnico che sembra non volersi mai spegnere. E che trova scuse sempre più ridicole per manifestarsi, dalla toponomastica alla formazione delle giunte comunali.

Il problema, semmai, è quello di cogliere le reali conseguenze dell’intervento comunitario. Perché due sono i messaggi importanti in chiave sistemica.

Il primo è che l’autonomia non è di proprietà esclusiva di un solo soggetto (sia esso il partito, la Provincia, secondo alcuni lo Stato, secondo altri un solo gruppo linguistico), ma è necessariamente un progetto condiviso, al quale concorrono tanti attori con legittimazioni diverse, compresi i giudici e i funzionari comunitari, e che evolve in maniera naturale anche attraverso lettere della Commissione europea. Un’ovvietà, che tuttavia sembra non essere ancora penetrata nelle coscienze, come dimostra la vicenda della toponomastica.

Il secondo è che lo statuto ha bisogno di una profonda revisione. Non per alterare i delicati equilibri che regola, ma per rafforzarli ammodernandoli. Ricordiamo che lo statuto non menziona mai l’appartenenza dell’Alto Adige al sistema comunitario, né la collaborazione transfrontaliera, non attribuisce alla Provincia competenze che ora le spettano in base alla riforma della costituzione del 2001 e contiene disposizioni in materia finanziaria ampiamente superate (a tutto vantaggio della Provincia). Quanto potrà durare uno statuto non al passo coi tempi?

Bruxelles non è l’angelo sterminatore della specialità, né rappresenta la liberazione dall’oppressione dell’etnocrazia. L’autonomia sarà finalmente matura quando saprà utilizzare gli spunti esterni come occasione di riflessione di crescita, per migliorarsi ulteriormente. Fino ad allora, basterà una lettera da Bruxelles per incendiare gli animi.

Alto Adige, 25 giugno 2010



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