Magazine Opinioni

Paul Ryan

Creato il 03 settembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide Piacenza

Paul Ryan, l’uomo nuovo del sogno americano
L’11 agosto scorso Mitt Romney ha scelto il secondo componente del “ticket” repubblicano che correrà per la Casa Bianca, tentando, il prossimo 6 novembre, di impedire la rielezione del Presidente Barack Obama: si tratta di Paul Ryan, 42enne deputato del Wisconsin a capo dell’organismo parlamentare che controlla le leggi sulla spesa statale, l’House Budget Committee. Proprio in virtù di tale ruolo, negli ultimi due anni di lavoro al Congresso Ryan si era distinto per aver promosso e difeso la proposta di spesa repubblicana, The Path to Prosperity (ma spesso indicata, specialmente sui media, semplicemente con Ryan’s plan o Ryan’s proposal). In queste bozze di riforma si potevano riscontrare in maniera definita alcuni dei cardini del Tea party, a cui il giovane politico è indissolubilmente legato: tagli corposi alla spesa pubblica (del 12.5% per quanto riguarda l’anno fiscale 2012, precisamente), sensibile diminuzione della pressione fiscale (con eliminazione sia delle imposte sui profitti generati all’estero che di sussidi e deduzioni), abolizione della riforma della sanità del 2010, stimolo dell’imprenditoria e della finanza.

I “piani Ryan” vennero accolti in maniera combattuta dall’elettorato americano: secondo un sondaggio della CNN molto ripreso dai Democratici, il 58% della popolazione si dichiarò contrario all’ipotesi di tagliare la spesa per alleggerire le tasse. Il noto economista Paul Krugman dalle colonne del New York Times demolì il lavoro di Ryan, giudicandolo “ridicolo e senza cuore”, perché – sostanzialmente – a vantaggio dei ceti medio-alti e dannoso per le fasce più deboli . I Democratici fecero fronte unito contro la proposta sia alla Camera che al Senato. In realtà il Congressional Budget Office, l’agenzia federale voluta da Nixon che si occupa di effettuare studi economici e fornirli al Congresso, stimò che la proposta avrebbe ridotto il debito pubblico americano al 10% del PIL nel 2050. Tuttavia, il Center on Budget and Policy Priorities – un think-tank indipendente – pubblicò un’altra ricerca, finalizzata all’indagine dei possibili effetti del “piano Ryan” sui governi statali e locali. Il quadro fu allarmante: alcuni servizi primari (scuola, polizia, acqua pubblica e soprattutto sanità) vista la drastica diminuzione dei finanziamenti federali, sarebbero stati sottoposti a decurtazioni profonde. Medicaid, il programma di sostegno sanitario ai ceti meno abbienti, sarebbe stato il più colpito, con un taglio netto del 34% di spesa in soli 10 anni. Ad ogni modo, The Path to Prosperity al Senato non passò (venne bocciato, nel maggio 2011, con 57 voti contrari contro 40 favorevoli), ma il nome di Paul Ryan divenne un punto di riferimento per l’establishment repubblicano e per la sua base elettorale.

Una scelta imprevista

Quella di Mitt Romney non dev’essere stata una decisione semplice: Paul Ryan, diversamente da altri membri del GOP, è un politico con idee precise ma talvolta poco condivisibili (si pensi, nello specifico, alle proposte di riforma concernenti Medicare e Medicaid). Libertarian e orgoglioso, il giovane del Wisconsin, come detto, sposa molti degli assunti fondamentali del Tea Party e, per questo motivo, ha trovato opposizione non solo fra le fila democratiche, ma anche in seno all’ala più moderata del suo stesso partito. Prima dell’ufficialità del nome di Ryan si poteva pensare a qualche candidato di impatto meno radicale, quale avrebbe potuto essere Marco Rubio – senatore di origine cubana della Florida, che avrebbe peraltro giovato in termini di voti degli ispano-americani – o Rob Portman – senatore dell’Ohio, già in carica durante i mandati di George W. Bush, di cui è amico di famiglia. Entrambi avrebbero contribuito a garantire voti in due Stati a rischio – Florida e Ohio, per l’appunto – senza prestare il fianco alla propaganda democratica, che da tempo tenta di legare Romney alle posizioni di Paul Ryan.

Romney stesso, però, ha voluto optare per una scelta profonda – di campo, si potrebbe dire – forse anche per accontentare il duo Weekly Standard-Wall Street Journal, parte dell’establishment mediatico della destra americana ancora poco convinto della scelta dell’ex governatore del Massachusetts. Nominando Ryan suo vice, inoltre, molti analisti hanno sottolineato come Mitt Romney abbia mutato l’essenza stessa della campagna elettorale in vista di novembre; in precedenza i toni dei suoi interventi erano stati votati all’unione delle diverse anime del partito, più che legati a proposte specifiche dell’una o dell’altra fazione. Vaghi e anti-obamiani, ben più che ideologici. Ryan invece snocciola dati, fa proposte, attacca gli approcci economici dell’Amministrazione Obama. E, pur dividendo, riesce a traslare gli argomenti di dibattito dalle accuse personali (il rapporto di Romney con la Bain, la sua ex società di investimento, o la questione dei birthers e il luogo di nascita di Obama, ad esempio) alla concreta differenza di vedute dei due ticket.

Detto questo, quella che ha portato alla nomina di Ryan è senza dubbio una scelta in sé abbastanza disperata, uno stratagemma che vuole disfare le fondamenta della campagna elettorale fin qui costruita e ricostruirle – più efficacemente – dall’inizio, in modo da ribaltare i sondaggi e tentare il tutto per tutto. Per dirla con le parole di Ben Smith, giornalista ed editor-in-chief di Buzzfeed, “When in trouble, go big” (“Quando sei nei guai, gioca in grande”).

Per i democratici, comunque, per certi versi la scelta di Ryan è una manna dal cielo: come spiega Ryan Lizza in un bell’articolo apparso giorni fa sul New Yorker, Paul Ryan è un obiettivo semplice per l’entourage di Obama; la privatizzazione del sistema Medicare, i tagli alla spesa pubblica e l’abbassamento delle tasse sui guadagni dei ricchi sono argomenti che si prestano particolarmente a venire utilizzati a fini propagandistici – e diversi spot elettorali di questi ultimi giorni lo stanno confermando. Ryan è inoltre un convinto e inamovibile anti-abortista, cosa che Obama nei prossimi giorni userà strategicamente per aumentare il vantaggio di voti femminili che può vantare sul candidato del GOP.

Il ritorno dei neocon?

In un discorso all’Alexander Hamilton Society, un’organizzazione no-profit con sede a Washington, dello scorso anno, l’allora deputato del Wisconsin si pronunciò con frasi di sicuro impatto retorico sul tema dell’eccezionalismo americano in politica estera. “Un mondo senza la leadership degli Stati Uniti sarebbe un luogo molto più caotico”, disse quel giorno Ryan, aggiungendo subito “provate ad immaginare un mondo retto da Cina o Russia”. Per un esperto di economia e mercato, quel discorso fu piuttosto inusuale e sorprendente. “L’America è innanzitutto un’idea” arringò convinto il giovane Paul Ryan, e rimarcò come questa idea dovesse necessariamente influenzare il policy-making degli Stati Uniti. I destinatari del suo discorso erano quelli che auspicavano, dopo le guerre in Iraq e Afghanistan, un ritiro di Washington dal suo ruolo di super-potenza in favore di un multilateralismo più spiccato. A loro, Ryan rispose: “Dobbiamo rinnovare il nostro impegno nei confronti dell’idea che l’America è la più grande forza in difesa della libertà umana che il mondo abbia mai visto”. Di certo più che un banale discorso; queste parole, prese a posteriori, possono essere considerate come una sostanziale dichiarazione d’intenti del nuovo candidato vicepresidente.

Non solo: come specifica Stephen Hayes, importante firma del Weekly Standard, Paul Ryan sarebbe accostabile al neoconservatorismo anche per i nomi entrati a far parte del suo entourage negli ultimi mesi: Elliott Abrams, anziano consigliere di Reagan e Bush jr; Frederick e Robert Kagan, fratelli di spiccate tendenze filomilitariste e interventiste, entrambi professori di storia e opinionisti di politica estera. Dan Senor, l’attuale foreign policy advisor del ticket repubblicano, ebbe un ruolo attivo nell’invasione dell’Iraq del 2003. William Kristol, invece, neocon dichiarato e fondatore proprio del Weekly Standard, è da tempo un supporter di Ryan. Tutti questi nomi – che a molti diranno poco o nulla – danno in realtà precise indicazioni sui riferimenti culturali di Ryan, perlomeno nel campo della politica estera. Si tratta di personalità legate fra di loro (basti pensare che Senor, Kristol e Kagan hanno recentemente dato vita a un loro think-tank, chiamato Foreign Policy Initiative) da una comunanza di vedute che potrebbe risultare di importanza primaria, in caso di vittoria di Romney. Quale che sia l’esito novembrino delle consultazioni elettorali, ad ogni modo, la scelta di Paul Ryan segna uno spartiacque decisivo nel corso della campagna elettorale americana. È anzi probabile che l’intera partita possa essere vinta da chi sfrutterà meglio (politicamente parlando) la discesa in campo dell’atletico 42enne del Wisconsin.

La convention repubblicana di Tampa

Tra il 28 e il 31 agosto si è tenuta al Tampa Bay Times Forum di Tampa (Florida) la 40° convention del partito Repubblicano, il tradizionale appuntamento in cui la “right nation” americana si riunisce per formalizzare la scelta del suo candidato Presidente. La kermesse – il cui svolgimento era stato inizialmente messo in discussione dall’arrivo dell’uragano Isaac sulla East Coast, che poi si è spostato in Lousiana – ha segnato la consacrazione di Ryan come nuovo perno dell’establishment repubblicano. Il discorso di Ryan, tenuto il secondo giorno, è stato accolto addirittura con più entusiasmo rispetto a quello conclusivo di Mitt Romney, introdotto da un Clint Eastwood apparso poco abile nel destreggiarsi nell’improvvisazione di un discorso-accusa con un immaginario Presidente Obama.

Ryan ha arringato la platea accusando l’amministrazione uscente di aver portato gli Stati Uniti su un sentiero di decrescita economica e declino della loro leadership. Con una retorica efficace, un buon piglio e ricchezza di spunti polemici, il deputato del Wisconsin è apparso l’uomo giusto per unire le varie anime del suo partito, presentandosi come l’esperto di temi economici in grado di combattere la recessione. Dopo di lui ha preso la parola Condoleeza Rice, la quale, ispirandosi al concetto di “peace through strenght” di ascendenza reganiana, ha improntato il suo discorso sulla politica estera americana. Le parole dell’ex Segretario di Stato fanno il paio con quelle del carismatico governatore del New Jersey, Chris Christie, che nel suo lungo discorso ha fatto precisi riferimenti a un teorico “secondo secolo americano” di derivazione concettuale neoconservatrice. Il GOP è stato chiaro: in caso di vittoria dei Repubblicani a novembre, Iran e Russia (per citare gli Stati che lo stesso Tim Pawlently, il consigliere politico di Romney, individua come i principali nemici geopolitici degli USA) dovranno fare i conti con una Casa Bianca determinata ad assumere un ruolo centrale nelle questioni internazionali.

Il bilancio della convention, tuttavia, presenta diversi chiaroscuri per il ticket Repubblicano: se, da un parte, Romney è parzialmente riuscito nel suo intento di presentare Obama come il “Presidente del fallimento” e a proporsi come l’alternativa pragmatica ai toni vaghi dell’attuale governo federale, dall’altra l’anima del suo partito sembra lontana dall’essere entusiasmata. Mitt Romney ha attaccato Obama sulla politica estera, su Obamacare e sull’economia, ma non è riuscito a dare quella spinta ideale alla sua candidatura che gli servirebbe per ribaltare i sondaggi. Dietro di lui, tra l’altro, i volti nuovi del partito hanno sfruttato l’occasione concessa loro dalla convention per porre le basi per un’eventuale candidatura alle primarie nel 2016; parliamo soprattutto di Marco Rubio – che ha parlato poco prima dello stesso Romney, con un intervento appassionato che ha convinto tutto il Forum –, di Scott Walker (governatore del Wisconsin), della governatrice del South Carolina Nikki Haley, di Chris Christie e dello stesso Ryan. Questa nuova generazione di politici, espressione della corrente Tea Party che sembra aver monopolizzato il partito Repubblicano, vuole – a differenza della precedente – rompere i legami di dialogo e apertura verso i Democratici e porre maggior enfasi sui temi connessi ai valori della destra radicale. Le loro già discusse posizioni in politica estera sono la riprova di questo orientamento, peraltro.

I volti nuovi del GOP oggi supportano la corsa alla Casa Bianca di Mitt Romney per farsi conoscere dall’elettorato americano; domani, però, dalla “generazione Tea Party” potrebbero uscire i nomi dei prossimi candidati Repubblicani alla Presidenza.

* Davide Piacenza è Dottore in Scienze Linguistiche (Università Sacro Cuore – Milano)


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :