Anna Lombroso per il Simplicissimus
Nelle storie nazionali il declino, la decadenza sono fasi temporanee cui succedono radiosi rinascimenti, opimi salvataggi e lussureggianti rinnovamenti. L’Italia raffigurata da Canova per la tomba di Alfieri, che porta sul capo una corona di mura turrite a incarnazione simbolica delle sue città e dei suoi comuni, piange, tergendosi le lacrime, più di emotive ministre. E della statua Foscolo ebbe a dire: “è pur bella l’Italia, ma sta pur sempre sopra un sepolcro”. È che tra i caratteri della nostra autobiografia nazionale, oltre a una preoccupante indole a rendere permanenti i declini, c’è sempre quella alternanza che ha trovato grandi interpreti nelle maschere della commedia dell’arte come anche in insigni studiosi tra lacrime e ghigno, tra tragedia e farsa.
Così di fronte a certi eventi nel corso di catastrofi tremendamente lunghe per non dire perenni, si disegna sul viso dell’Italia la smorfia beffarda, lo sberleffo irridente, la smorfia del dileggio, Crozza esercita un potere sostitutivo di opinionisti letargici e sottomessi, un comico conquista consensi in cerca di leadership, a fronte di una inquietante evaporazione del senso del ridicolo, oltre che del buonsenso. La compressione casuale ed estemporanea di alcune province, si direbbe maturata nel corso di un gioco di società di ministri buontemponi, che hanno affidato le scelte alla pesca dei bigliettini in un bussolotto, si presta quindi di più alle sortite del Vernacoliere che alle analisi della sociologia. In verità l’accorpamento di territori segnati da antiche rivalità e da irrisolte contese di campanile fa sospettare che anche questa volta abbia fatto premio l’istinto del governo a alimentare rancori, a attuare rappresaglie, a nutrire divisioni. Che si sa, un popolo diviso, corroso da risentimenti e carico di invidie è più manovrabile e incline a trovare poi l’unità intorno a un nemico, possibilmente di un altro colore, un’altra lingua, un’altra religione. E se è più povero, più disperato, più affamato, meglio visto che d’improvviso il livoroso rancore sociale non procede più in linea verticale, ma si rivolge intorno alla stessa altezza e giù, contro i sommersi che, proprio in virtù della loro pena costituiscono una minaccia maggiore, quella di chi è libero da qualsiasi possesso e non ha nulla da perdere.
La pedagogia del nostro ceto potrebbe anche aver deciso, a scopo punitivo più che educativo, di mettere insieme coattamente, in ibridi perversi, realtà in antico conflitto. Forse pensa che la forzosa combinazione, l’accoppiamento contro natura accenda una feconda competizione, ispiri una nobile gara di responsabilità dinamica e lungimirante attivismo solidale.
Le province hanno tuttora competenze strategiche: la tendenza al grottesco che ha venato certi comportamenti nazionali fa temere che invece si svolgerà una tenzone per rubarsi l’acqua, per rapirsi secchi o Sabine, per conferire rifiuti mefitici pisani in cassonetti livornesi, per non mandare poliziotti triestini a fermare scippatori di Gorizia.
Ma d’altra parte lo spirito del tempo ha promosso l’egoismo come autodifesa e l’isolamento come protezione, smantellando il sistema di virtù civiche tradizionali: vicinanza emotiva, solidarietà tra generazioni, collaborazione e coesione sociale. Mentre si consolidano sempre di più antichi vizi, tollerati, favoriti e sostenuti da leggi che promuovono disuguaglianze, personalismi e sopraffazione.
Dopo 150 anni pare che non si riesca ad essere uniti nemmeno nella sventura e solidali nemmeno nella miseria. E non ci consola pensare che una risata ci seppellirà.