Le mie storie d’amore hanno la stessa
aspettativa di vita di un gatto in autostrada. Diciamoci la verità, un cinico
passa un’intera vita a convincersi che l’amore sia solo una bugia per scatole
di cioccolatini, una mera illusione, che quando ti succede sei incredulo, scettico
dinanzi a quelle sensazioni, quasi estranee, che provo, che sono lì, che sono
vere.
Un po’ come per quegli uomini del mito di
Platone, lo conoscete? Quello secondo il quale alcuni prigionieri, incatenati
in una caverna, vedevano soltanto delle ombre sul muro e credevano che quella
fosse la realtà. Io sono così, diffidente come un uccellino che ha paura di
lasciare il nido, di lanciarsi nel vuoto e volare.
Poi incontri quegli occhi che ti guardano
come se fossi l’unico al mondo, e allora ti lasci guidare pian piano da quei
sentimenti, da quei gesti, da quelle parole che fanno sì che qualcuno si
insinui nella tua vita, e che ti mostri il mondo “in coppia”, come sull’Arca di
Noè: con quei piccoli progetti, con quelle piccole promesse fatte sottovoce,
con quei grandi sogni davanti alla vetrina di un antiquario dove guardi un
suppellettile immaginando già una casa insieme. E poi quella quotidianità, che
con facebook, WhatsApp si fa più intensa, frequente. Tag, like, commenti. “cosa
fai?”, “dove sei?”, “mi pensi?”, “messaggiami quando arrivi”, “ti scrivo quando
sono a casa” ed una sequela di parole che improvvisamente ti persuadono che sia
quella la tua vita, che sta prendendo una piega diversa, che c’è chi fa la
differenza in un mondo mediocre fatto di superficialità.
Ristoranti giapponesi, cenette, sguardi, mani
che s’intrecciano, giri in moto d’estate in una città addormentata e stanca,
che ti fa rivivere quasi la magia di quelle “Vacanze Romane” à la Audrey
Hepburn viste soltanto al cinema. E poi baci rubati, sguardi complici, pelle,
intimità. A due settimane dal primo appuntamento cominci a guardare il mondo
con occhi nuovi, fino ad una inspiegabile battuta d’arresto: una fine repentina
quanto inaspettata.
Ti senti deluso, tradito, arrabbiato per aver
creduto a quelle parole, per esserti lasciato ammaliare da quei sogni, per aver
abbandonato quella corazza di cinismo con cui ti proteggevi, permettendo ad una
persona di cui ti fidavi di calpestare il tuo cuore, di calciarlo fuori dalla
sua vita come una lattina di birra sul marciapiede.
E così quelle uscite si trasformano in
ricordi, quei messaggini in assenza, quelle parole in inganni vuoti senza
senso. Ed è in quel momento che, come gli uomini di Platone, vorresti
ritornartene nella tua caverna in catene, vorresti non sapere, startene al
buio, e osservare il mondo solo attraverso quelle ombre che in qualche modo ti
proteggevano.
Magazine Diario personale
Pensavo fosse amore, invece era un gatto in autostrada
Creato il 28 luglio 2014 da Marianocervone @marianocervone
Le mie storie d’amore hanno la stessa
aspettativa di vita di un gatto in autostrada. Diciamoci la verità, un cinico
passa un’intera vita a convincersi che l’amore sia solo una bugia per scatole
di cioccolatini, una mera illusione, che quando ti succede sei incredulo, scettico
dinanzi a quelle sensazioni, quasi estranee, che provo, che sono lì, che sono
vere.
Un po’ come per quegli uomini del mito di
Platone, lo conoscete? Quello secondo il quale alcuni prigionieri, incatenati
in una caverna, vedevano soltanto delle ombre sul muro e credevano che quella
fosse la realtà. Io sono così, diffidente come un uccellino che ha paura di
lasciare il nido, di lanciarsi nel vuoto e volare.
Poi incontri quegli occhi che ti guardano
come se fossi l’unico al mondo, e allora ti lasci guidare pian piano da quei
sentimenti, da quei gesti, da quelle parole che fanno sì che qualcuno si
insinui nella tua vita, e che ti mostri il mondo “in coppia”, come sull’Arca di
Noè: con quei piccoli progetti, con quelle piccole promesse fatte sottovoce,
con quei grandi sogni davanti alla vetrina di un antiquario dove guardi un
suppellettile immaginando già una casa insieme. E poi quella quotidianità, che
con facebook, WhatsApp si fa più intensa, frequente. Tag, like, commenti. “cosa
fai?”, “dove sei?”, “mi pensi?”, “messaggiami quando arrivi”, “ti scrivo quando
sono a casa” ed una sequela di parole che improvvisamente ti persuadono che sia
quella la tua vita, che sta prendendo una piega diversa, che c’è chi fa la
differenza in un mondo mediocre fatto di superficialità.
Ristoranti giapponesi, cenette, sguardi, mani
che s’intrecciano, giri in moto d’estate in una città addormentata e stanca,
che ti fa rivivere quasi la magia di quelle “Vacanze Romane” à la Audrey
Hepburn viste soltanto al cinema. E poi baci rubati, sguardi complici, pelle,
intimità. A due settimane dal primo appuntamento cominci a guardare il mondo
con occhi nuovi, fino ad una inspiegabile battuta d’arresto: una fine repentina
quanto inaspettata.
Ti senti deluso, tradito, arrabbiato per aver
creduto a quelle parole, per esserti lasciato ammaliare da quei sogni, per aver
abbandonato quella corazza di cinismo con cui ti proteggevi, permettendo ad una
persona di cui ti fidavi di calpestare il tuo cuore, di calciarlo fuori dalla
sua vita come una lattina di birra sul marciapiede.
E così quelle uscite si trasformano in
ricordi, quei messaggini in assenza, quelle parole in inganni vuoti senza
senso. Ed è in quel momento che, come gli uomini di Platone, vorresti
ritornartene nella tua caverna in catene, vorresti non sapere, startene al
buio, e osservare il mondo solo attraverso quelle ombre che in qualche modo ti
proteggevano.
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