il quartiere di nonna Caterina, tra il Museo e la Sanità
E così, oggi compiresti 102 anni, se fossi ancora qui, con la tua corporatura pesante, la vitiligine che non ti imbruttiva affatto (tanto la coprivi con cerone e andavi avanti) e i capelli ormai diventati candidi come la neve, ma sempre curati, così come ti prendevi cura delle unghie e del tuo viso.
“Song nata comm a’ Cristoforo Colombo” esclamavi orgogliosa, confondendo la scoperta dell’America con il suo scopritore, ma noi non ti correggevamo, neppure il misto di dialetto e italiano che era il tuo modo di esprimersi.
Non mi eri nemmeno nonna nel senso biologico, in quanto matrigna di mia madre, ma quanto hai dato, Caterina, a me e alle mie sorelle.
E si che ne hai viste tante, nonna: eri rimasta orfana di tuo padre e priva di una sorella, nel 1919, durante una terribile epidemia di spagnola. Eri rimasta sola con tua madre, che affidandoti inizialmente all’Albergo dei Poveri di Napoli, un orfanotrofio (chiamato dal popolo o’ serraglio) eretto nel ‘700 da Ferdinando Fuga per re Carlo III, si prendeva cura dei bambini indigenti a semiconvitto. E lì avevi studiato fino alla terza elementare, ricavandone nozioni che talvolta stupivano noi universitarie a distanza di tempo, e poi avevi lavorato, da sempre.
piazza Carlo III a Napoli, con l’Albergo dei Poveri
E nel 1944, in piena guerra mondiale, decidesti di sposarti, 32enne ormai rassegnata a restare zitella per sempre, con quel vedovo triste così distinto che aveva già tre figli, traumatizzati dall’aver perduto, 4 anni prima, durante il primo bombardamento di Napoli, la mamma, una esile donna sfortunata operata allo stomaco per un’ulcera e abbandonata lì a morire da sola a 39 anni, , dissanguata, in seguito alla devastazione dell’ospedale.
Quell’uomo non bello ma brillante ed estroverso tu lo amasti subito, come ti prendesti cura dei tre ragazzi, due maschi e una tenera bambina delicata, mia madre, che fu la tua seconda perdita dopo la morte, anche essa prematura, di tuo marito, mio nonno, che non ho mai conosciuto.
E quel dolore, seguito poco dopo dalla morte della tua mamma, e dopo qualche anno dalla morte della mia mamma, lo hai affrontato senza mai lamentarti, in silenzio, affidandoti alla tua fede che rinnovavi ogni giorno andando in chiesa e stabilendo con il parroco una specie di brusca intesa, quasi di prepotenza (Ue, padre Alfano: qui ci stann le offerte, dicìte le messe per i miei defunti, eh, nun ve scurdat comm’ sempre!) Questo nonno mai conosciuto è sempre stato come una presenza, sapevo tutto di lui, persino che amava leggere il giornale in bagno per ore seduto sulla tazza e poi ti chiamava perchè gli si erano atrofizzate le gambe per la posizione….e tu raccontavi e ti trasfiguravi.
la chiesa di S. Maria degli Angeli alle Croci di nonna Caterina, tra l’Orto Botanico e la Veterinaria
Questi racconti di una Napoli antica, soggiogata dal fascismo ma mai vinta, anche grazie agli espedienti e all’ironia, li ho poi ritrovati recentemente nell’atmosfera dei romanzi di Maurizio de Giovanni con protagonista il commissario Ricciardi. Ed è stato come trovarmi a casa, perchè la ricostruzione storica era esattamente la stessa che ci hai tramandato. Il nonno Gennaro nato in Brasile da emigranti, giornalista diventato giornalaio, che vendeva opuscoli antifascisti di nascosto, il nonno Gennaro diventato dopo la caduta del regime prestigioso direttore di una compagnia navale che faceva partire i bastimenti degli emigranti.
E come ti prendesti cura dei tre orfanelli di un tempo, così ti prendesti cura delle tre bambine di Sofia, la tua figliastra adorata. Eri per noi la nonna che raramente ti diceva parole dolci, ma che nei gesti, nel pensiero, nel cuore era sempre premurosa. Energica abbastanza per inseguirci con la scopa per la tua vastissima casa dalle stanze antiche, quando avevamo combinato qualche marachella, alzando la voce per consentirci di nasconderci sotto il tuo letto alto e fingere di non vederci, mentre ridevamo delle parole in dialetto che pronunciavi (mo’ v’acchiapp! mo’ fe vacc vedè)
immagine presa dal web ma quasi sicuramente raffigura uno dei balconi della vecchia casa
Trasformata per amore da donna lavoratrice e vedova – eri diventata bidella – anche in nonna sferruzzante e pasticciera per nipoti sempre golose di “prestifatti“, come chiamavi tu i dolci con l’aggiunta del lievito istantaneo che all’epoca era una novità assoluta e in befana generosa, dai grandi regali a tutti i bambini della famiglia.
Nel tuo dialetto napoletano stretto, intervallato dalle parole ricercate che mia madre, maestra, aveva cercato caparbia di insegnarti, esprimevi concetti di intelligenza e saggezza. Soprattutto eri il fulcro della famiglia, che con grande generosità riunivi in tavolate memorabili, sopportando e rispondendo piccata alle battute frizzanti dei figliastri maschi, che ti criticavano per la cucina pesante, sontuosa, ma che in fondo alle parole celavano il rispetto e l’ammirazione per la tua forza d’animo e la tua gentilezza.
E quando, ormai mamma e trasferita a Roma per lavoro, passavo a trovarti appena tornavo a Napoli, eri sempre sollecita nel regalarmi una collanina, un profumo, un pensierino per la bimba. “Ma comm’ l’hai chiammata ‘sta creatura, Alice, è un nome di pesce, ma dico io, perchè non l’hai chiamata Iolanda?” dicevi riferendoti al nome di mia figlia, e questa cosa mi faceva sorridere sempre.
Nonna Caterina e una giovanissima Harielle con la figlia dal nome di pesce :)
So che hai sempre pensato che fossi nu poc’ strana e non fatta per la vita di famiglia, per una vita regolare. Tu, che avevi sempre lavorato e contato su te stessa, che avevi trovato e perso il tuo amore di una vita in pochi anni, volevi per me la felicità coniugale. Che non c’è stata, ma che, anche all’esempio che mi hai involontariamente fornito, è stata sostituita dalla forza di andare avanti. In questo ti assomiglio tanto.
Ed ogni tanto mi sento addosso il tuo sguardo, come le volte in cui, uscendo dalla tua casa antica nel centro della città partenopea, mi voltavo dal vicolo a guardarti sul balcone mentre mi salutavi e dicevi invariabilmente: “Statt’accorta, guagliona“, stai attenta, ragazza, come quando ero ragazzina e andavo al liceo lì vicino.
Te ne sei andata a 92 anni, quasi senza rumore. E se di te ricordo tutto, anche le ultime immagini, mi piace rammentarti serena, come quando ero adolescente e guardavamo insieme la tv di pomeriggio mentre io facevo i compiti. Allora pensavo che fossero giornate piatte, che dovevo trascorrere a tradurre interminabili versioni di greco e latino senza poter uscire con gli amici, ora invece penso di aver goduto di un dono prezioso e inestimabile, il tuo amore, silenzioso e senza enfasi, ma pieno di significato, i tuoi capelli tinti talvolta di una incantevole sfumatura turchina per nascondere il bianco.
Grazie, nonna Caterina, dovunque tu sia, e buon compleanno.
E dovunque sia, sei anche nel mio cuore. E in quello delle mie sorelle.
c’era una finestra così…